I lettura: Ezechiele 34,11-12.15-17;
II lettura: 1Corinzi 15,20-26-28;
Vangelo: Matteo 25,31-46
Quello di Cristo è un regno di signori. Dio vuole costruirsi un regno di signori dentro questa nostra umanità. La Bibbia lo chiama “popolo regale”. “Ci ha comprati non a prezzo di denaro, ma col sangue prezioso del suo Figlio Gesù: per fare di tutti noi un popolo regale”. Altro che persone di sangue blu! Qui c’è nientemeno che il sangue di Dio: più signori, più nobili di così non si può essere! Anni fa’, quando si ricominciò a parlare della Chiesa come popolo di Dio, alcuni nobili in Italia protestarono: “Sta a vedere che ora ci declassano anche nella Chiesa: pure noi ridotti a popolo! è un’ingiustizia…”. Poveretti! Non erano in grado di capire che il sangue di Cristo ci pone su un tale piano di nobiltà che quella derivante dal sangue blù arrossisce a suo confronto!
E il primo a capo di tutti i “signori” è Gesù: in questa prossima Domenica lo celebriamo Re e Signore dell’universo. Sì, ma cosa vuol dire per Dio, per Cristo, essere Re e Signore? Siamo abituati a vedere sovrani e capi di stato passare in rassegna eserciti schierati o picchetti d’onore. Sarà anche Dio un sovrano di tal genere? “Come un pastore passa in rassegna il suo gregge… così io passerò in rassegna le mie pecore…Io le condurrò al pascolo e le farò riposare. Io andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita…”. No, non si parla qui di eserciti o di picchetti d’onore. Noi, che abbiamo inventato la democrazia, andiamo dicendo che chi governa deve promuovere il bene comune; i popoli antichi del Medio Oriente non conoscevano la democrazia, non parlavano di bene comune, ma avevano chiara l’idea che la migliore convivenza sociale possibile fosse quella in cui il re è pastore del suo popolo: un re-pastore che si prende cura di tutti e, tra tutti, specie dei più deboli. “Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita…”. Gesù Cristo è re sì, ma un re-pastore. È una sovranità, la sua, che ha come unico interesse la promozione della dignità e la salvezza d’ogni persona; il suo modo di esercitare il potere è tanto diverso dalle logiche di questo mondo da prendere il nome e lo spessore del suo esatto contrario: il servizio. “Voi mi chiamate signore. Certo, lo sono. Lo sono perché ho accettato di scendere in basso, sotto il vostro livello, così da poter lavare i vostri piedi, anzi: così da potervi dare la mia vita”. Ecco cosa vuol dire per Gesù Cristo essere Re e Signore. E per noi discepoli, forse che significherà qualcosa di diverso da questo? Ci racconta ancora una parabola Gesù per spiegarci come funzionano le cose nel suo Regno. È l’ultima, non solo, sono anche le ultime parole che ci lascia prima di avviarsi alla croce: parole calibrate, quindi, parole che hanno tutto il sapore di una sintesi, di un testamento. Ci dice che un giorno lo vedremo assiso su un trono di gloria… sì, ma nel frattempo ci dà appuntamento in ogni persona impoverita dalla sofferenza o dalla necessità, che incontriamo sulle nostre strade di tutti i giorni. Anzi, se non l’incontriamo, ci dice espressamente di andarla a cercare. Si comincia a diventare signori di quel regno quando si è capaci di piegarsi con gratuità su chiunque si trova in quelle situazioni. E ci tiene così tanto Gesù a che lo diventiamo, da provocarci dalla vita di coloro che attendono soccorso e dignità: fa suo il loro volto, “ero io” ci dirà, “l’avete fatto a me”. Signori, nel regno di Cristo, si diventa così. Quanta strada abbiamo fatto in questa direzione?
In questa prossima domenica, per la nostra Chiesa locale, ricorre – come d’abitudine – la giornata del Seminario. A guardare come vanno le cose in questo campo, vien da dire che la voglia di essere per davvero “signori” – con la capacità di donarsi, anche in modo radicale – scarseggia da tempo…. Forse non mancano espressioni di disponibilità saltuaria, di generosità individuale, ma un clima di dedizione che contagi le famiglie, le comunità nel loro complesso, lascia alquanto a desiderare. Sono molti ormai in Diocesi i preti che devono “accudire” un numero più o meno elevato di parrocchie. La scarsità delle “vocazioni al sacerdozio” tuttavia va ben oltre i parametri di un problema puramente “ecclesiastico”: è sintomo, segnale di un impoverimento che coinvolge la società tutta intera. Quanto potrà essere “umano”, vivibile, un futuro in cui il donare sé stessi fosse ridotto a frutto esotico e raro, se non addirittura assente? Che società può essere quella in cui si perde il gusto di donarsi, di spendersi per gli altri? Non è poi molto diverso dal chiedere: quanto ci crediamo al fatto che Cristo è il nostro unico Signore? che il servire, calcando le sue orme, è la più alta espressione di nobiltà che ci sia? Sì, le nostre disponibilità economiche sono accresciute (nonostante le crisi che le fanno vacillare); non passa giorno che qualcuno – al supermercato, in un ufficio, o per strada – ci si rivolga chiamandoci “signore” o “signora”: ma basterà questo per essere “signori” davvero? O non rischiamo invece di ritrovarci più poveri di un tempo? Ricordiamocelo comunque: nessuno è tanto nobile, signore nel vero senso della parola, quanto colui che sa donare se stesso.
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