I lettura: Proverbi 31,10-13.19-20.30-31;
II lettura: 1Tessalonicesi 5,1-6;
Vangelo: Matteo 25,14-30
Tutti sanno cos’è l’invidia; anche i bambini. Si comincia a quell’età infatti ad invidiare: un amichetto perché ha quello che io non ho, un compagno perché è più bravo di me… Poi, crescendo anche l’invidia cresce. Nemmeno gli anziani ne sono esenti. “Perché quello, a 90 e più anni, è ancora in gamba… mentre io che non arrivo neanche agli 80 sono pieno di acciacchi?”. L’ho sentito spesso questo ragionamento. Ma ne ho sentito anche un altro, da un amico, morto a 60 anni per una malattia che non perdona; negli ultimi mesi di vita diceva: “Beh, 60 anni – per bene che vada – sono due terzi della vita… Io li ho vissuti. Invece che lamentarmi per quel terzo che manca, ringrazio per quei due che ho avuto”. Sto commentando la parabola dei talenti, il vangelo della prossima domenica. Più di qualcuno potrà dire che la conosce da sempre, ma ciò non significa che ne abbia tratto le logiche conclusioni. Oh, sia chiaro anzitutto: Gesù non parla per gli imprenditori, o per quelli che hanno grossi capitali da investire (vi sono sempre stati quelli che l’hanno capita così!). No, il vangelo è chiaro: “Gesù disse ai suoi discepoli…”. Tra quei discepoli, di imprenditori o azionisti non c’era nemmeno l’ombra. (L’unico che avesse qualche dote in tal senso pare fosse Giuda Iscariota, ma è finito male). Gli ascoltatori, ai quali Gesù parla di talenti, sono i suoi discepoli, che possiedono solo… se stessi, la loro vita, la loro persona, con pregi, difetti e caratteri, tutti diversi uno dall’altro. “Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni”. Un uomo, un padrone piuttosto ricco che possiede capitali e servi. Non è Dio, sia chiaro: Dio non è un padrone ma un padre, e poi… noi non siamo servi suoi: siamo figli. Ma Gesù, lo si sa, spiega le grandi cose di Dio (il Regno!) prendendo a prestito le piccole cose di questo mondo.
All’inizio della parabola c’è un particolare che non ci deve sfuggire: quel padrone, dovendo partire per un viaggio, affida a quei tre servi i suoi beni: tutti i suoi beni s’intende, con assoluta fiducia. E se al primo affida 5 talenti (i talenti erano grosse somme di denaro) è perché sa che quel tale ha la capacità di far fruttare bene 5 talenti; se al secondo ne affida due e al terzo uno è perché sa che le loro capacità arrivano fino lì e non oltre. Non c’è alcun servo cui dica: “A te non affido niente perché non sei capace di niente…”. Sì, ha rischiato grosso quel padrone! Ogni servo avrebbe potuto pensare: “E bravo il mio padrone! Visto che mi ha affidato un bel capitale, questa volta ne approfitto: parto per l’America e chi s’è visto s’è visto!”. Sì, ha rischiato grosso. Ma cosa vuol dire “fidarsi di qualcuno” in maniera incondizionata? Ciò presuppone che si abbia molta stima di lui, anzi, oltre alla stima probabilmente c’è anche amicizia, affetto. Ma è proprio qui che subentra la sorpresa: mentre i primi due fanno fruttare bene i talenti affidati, dimostrando che il padrone non s’era sbagliato a fidarsi di loro, il terzo se ne esce con quella sparata: “Siccome sapevo che tu, padrone, sei un duro, e hai solo pretese… io ho fatto un buco nella terra e vi ho nascosto il tuo talento: eccolo. Uno me n’hai affidato e uno te ne restituisco!”. Ma – stolto! – è questo il modo di ricambiare la fiducia del tuo padrone? Mentre lui ti apprezza, ti stima, tu vedi in lui soltanto un uomo duro e pieno di pretese? Ma lo conosci il tuo padrone? Qui la conclusione non può che essere questa: o tu non lo conosci, oppure sei un fannullone, uno scansafatiche, e allora cerchi una scusa per non lasciarlo intravedere.
A questo punto è più che logico passare dalla parabola alla vita: la nostra vita. Dio non è un padrone ma un padre. Tutto ciò che siamo, e tutto quello che abbiamo, è da lui che l’abbiamo ricevuto, è lui che ce l’ha affidato. Per quale motivo? Perché ha fiducia in noi, ci apprezza, ci conosce e ci ama. E se a uno ha affidato di più e ad un altro di meno, non è per parzialità (tanto meno per darci motivi d’invidia), ma solo perché sa quanto le spalle di ciascuno possono portare. In ogni caso, chi ha ricevuto di più non è per arricchire e ingrassare se stesso che ha ricevuto, esattamente come chi ha ricevuto di meno: anzichè perdere il suo tempo a invidiare l’altro, lo adoperi a far fruttare bene ciò che gli è stato affidato. E cosa significa “far fruttare”? Anzitutto questo: non dimenticare mai che ci è stato appunto affidato. Nessuno se è onesto può dire “Della mia vita, delle mie doti, delle mie possibilità, della mia famiglia… faccio quello che voglio!”. No, non è tuo: l’hai semplicemente ricevuto, e dovrai renderne conto a chi te l’ha affidato.
Da qui il dovere di vivere con responsabilità. Macchè dovere! Qui si tratta di saggezza (che è l’opposto della stupidità). È bello sapere che Dio nostro Padre ha una tale fiducia in noi da affidarci ciò che ha di più prezioso. È d’importanza vitale poter ricominciare ogni mattina sapendo che con quello che siamo e facciamo diamo una mano a Dio. E non c’è né carriera né successo che possa competere con questa soddisfazione.
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