I lettura: Isaia 45,1.4-6;
II lettura: 1Tessalonicesi 1,1-5b;
Vangelo: Matteo 22,15-21
Cesare era l’imperatore romano che, al tempo di Gesù, teneva in suo potere gran parte delle terre mediterranee, Palestina compresa. Gli ebrei – popolo dallo spirito libero e indipendente – sopportavano malvolentieri quella situazione. Alcuni di loro avrebbero voluto che Gesù stesso si mettesse a capo di una rivolta: dover pagar tasse a un signore straniero era per loro la cosa più odiosa che si potesse immaginare. Altri, però, cercavano di approfittare anche di quella situazione: collaborazionisti insomma. Allora li chiamavano “erodiani”: Erode era il signorotto locale di cui Cesare si serviva per governare; i suoi sostenitori, ovviamente, con i Romani andavano perfettamente d’accordo. “Maestro, tu che sei una persona di buon senso, dicci il tuo parere: è giusto pagare le tasse a Cesare?”. Se avesse risposto “sì, è giusto”, i suoi connazionali – gli ebrei – l’avrebbero preso per un venduto, un collaborazionista; se avesse detto “no”, sarebbero stati i Romani a condannarlo come guastafeste. Ed ecco che Gesù – il quale non sta né da una parte né dall’altra ma sta sopra, e da sopra vede meglio di tutti – a tutti chiude la bocca con questa risposta: “Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”.
In questo ottobre, che per la Chiesa è mese missionario, non possiamo ignorare che fino a un secolo fa’ era normale che i missionari portassero nei Paesi del Terzo Mondo non solo il vangelo ma anche la loro cultura, la loro civiltà; anzi, ci fu un tempo in cui quelle terre furono semplicemente conquistate dalle nazioni europee e diventarono colonie. Non di rado i missionari viaggiavano assieme ai soldati: questi portavano la spada e i missionari la croce; non di rado, le popolazioni oltre che sottomesse si ritrovavano – per amore o per forza – battezzate. Erano tempi in cui nella Chiesa si era fatta una certa confusione tra Cesare e Dio. Quante tragedie, quante guerre, violenze e sopraffazioni ne sono conseguite! “Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Com’è potuto accadere che si sia dimenticata questa parola di Gesù?
Poi, però, son venuti altri a dire: “Cesare non c’entra niente con Dio. E Dio, dal canto suo, c’entra tutt’alpiù con la vita privata degli individui, ma con il loro comportamento negli affari, con i loro doveri verso la società, verso lo stato…Dio non ha nulla a che vedere: sono due mondi incompatibili”. E anche con questo ragionamento si sono tollerate non poche ingiustizie: schiavitù, evasioni fiscali, disinvolti investimenti nella fabbricazione e commercio delle armi… Condividendo tale ragionamento certi cristiani entrano ed escono con faciloneria dalle porte delle chiese senza preoccuparsi se a questo mondo – vicino o lontano da loro – vi sono individui o popoli che soffrono ingiustizie, sopraffazioni, attentati alla loro dignità; non se ne curano perché pensano: “Cesare non c’entra nulla con Dio”. Sempre in forza di tale ragionamento c’è anche chi arriva a servirsi di Cesare – cioè dello Stato – per i suoi interessi, pronto a calpestarne le leggi se occorre. Perché, appunto, “quello di Cesare è un mondo che non c’entra niente con Dio”. Ah, certo, qualche gesto religioso bisogna pur compierlo per salvare la faccia! Ma sarà sempre qualcosa di innocuo che non disturba affatto! “Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Perché tanta resistenza a prendere sul serio questa parola di Gesù? E poi, cosa intende insegnarci Gesù? “Dare a Dio ciò che è di Dio”: e cos’è di Dio? La Bibbia è quanto mai chiara nella risposta, cioè nel precisare i diritti di Dio: “Io sono il Signore che amo il diritto e odio l’ingiustizia. Guai a coloro che assolvono per regali un colpevole e privano del suo diritto l’innocente. Qual diritto avete di calpestare la faccia ai poveri? Praticate il diritto e la giustizia, liberate l’oppresso dalle mani dell’oppressore, non fate violenza e non opprimete il forestiero. Scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne” (cfr. Is 5,23; Am 8,4).
In quest’epoca che ha scoperto e codificato i diritti dell’uomo, noi credenti dobbiamo gridare forte che i diritti dell’uomo sono i diritti stessi di Dio. Ciò vuol dire che quando un cristiano reca offesa a una persona, quell’atto è un attentato all’onore e all’amore di Dio. Insomma, noi credenti dobbiamo riferirci costantemente a Dio, non c’è nulla che non abbiamo da Lui. E tutto dobbiamo valutare con atteggiamento critico a partire dalla sua parola. Certo che abbiamo dei doveri verso la società, lo stato, ma il primo è quello dell’atteggiamento critico: non in base ai nostri gusti o interessi individuali, ma in base a quei criteri di valutazione che ci offre la Parola di Dio. “Date a Dio voi stessi, ci dice in sostanza Gesù, perché voi gli appartenete. Se la moneta o la banconota recano l’immagine di Cesare, in voi c’è l’immagine di Dio. E se voi apparterrete a Dio, allora anche Cesare avrà la parte che gli spetta, per il bene di tutti”. Ma questa è una conclusione che molti riterrebbero ingenua, per paura di ammettere che invece è semplicemente realistica e vera.
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