Salvezza. Ma cos’è salvezza?

I lettura: Isaia 22,19-23;

II lettura: Romani 11,33-36;

vangelo: Matteo 16,13-20

Quante persone abbiamo conosciuto nel corso della nostra vita fino ad oggi? Quanti incontri? Se ne facessimo l’elenco (a parte il fatto che sarebbe senz’altro incompleto), risulterebbe comunque molto lungo. Ma nessuno di noi lo fa, perché gli incontri – quelli veri, realmente umani – non hanno molto a che vedere con la calcolatrice. E tuttavia ritengo di non peccare di pessimismo se dico che nessuna delle persone incontrate, conosciute, è senza difetti. Nessuna. A volte, a una prima impressione, si è colpiti dai pregi, dalle doti, dai lati positivi… Ma poi, frequentandosi, conoscendosi meglio, si scopre che no: quella persona, oltre a delle belle doti, ha anche i suoi limiti. Al che, con il passare degli anni, io ho maturato questa convinzione: nessuna delle persone che conosco è senza difetti. Ma prima di questa era stata un’altra la conclusione cui ero giunto: molto probabilmente, a questo punto, almeno qualche difetto ce l’ho anch’io. E chi mi conosce penso sarà senz’altro d’accordo con me.

Ma allora… fino a che punto ci si può fidare pienamente di una persona, contare su di lei senza condizioni? Fino a che quella persona regge il peso della nostra fiducia, e non oltre. Intendo dire: non possiamo pretendere troppo da nessuno. È saggio non dimenticare mai che ogni individuo è limitato nelle sue capacità e nei suoi pregi. Su nessuna persona si possono riversare pretese esorbitanti, assolute. Né ci si può meravigliare se le sue risposte alle nostre attese non sono totalmente appaganti e pienamente soddisfacenti. Non lo possono essere.

Soprattutto non ci possono offrire quella che il linguaggio religioso chiama “salvezza”: parola grossa (quanti si troverebbero in imbarazzo a doverla spiegare!), ma che tra il resto significa “senso della vita”, considerata però in tutte le sue esperienze più realistiche, e quindi: senso del godere e del soffrire, del faticare e del riposare, dell’amare sia nei giorni luminosi come nelle notti più oscure, ragione o motivo per cui si spera e si va avanti con fedeltà. Questo “senso della vita”, che dura quanto dura l’esistenza, non ce lo può dare nessuna persona, se non altro perché ognuno “passa”: non resta qui per sempre.

D’altro canto, la vita ha bisogno d’un respiro ampio per essere vissuta degnamente, di un orizzonte che vada oltre i traguardi – pur rispettabili – che noi stessi possiamo raggiungere. In altre parole: ha bisogno di “salvezza”. Chi mai ce la potrebbe dare?

Qualcuno che venisse da oltre i nostri orizzonti, dal di fuori dei nostri confini e limiti umani. Qualcuno che fosse abilitato a venirci incontro e offrirci quello che noi, con le nostre mani, non ci possiamo costruire. Dovrebbe però essere qualcuno umano come noi (esperto di come siamo fatti) e, nello stesso tempo, libero, non condizionato dai nostri limiti (diversamente, cosa ci potrebbe offrire di realmente nuovo e diverso?). Questo qualcuno il popolo della Bibbia lo chiamava “Messia”, che – tradotto in greco – suona così: “Cristo”.

Chi dite voi che io sia?” domanda Gesù ai suoi apostoli nel vangelo della prossima domenica. Risponde per tutti Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”. E che significa esattamente questa parola (Messia, o Cristo)? È troppo poco usarla come esclamazione nei nostri momenti di nervosismo: val la pena, se non altro, conoscerne il significato.

Nell’antico popolo biblico, chi aveva una missione da adempiere nel nome di Dio veniva unto con olio sul capo. Messia, o Cristo, significa appunto “unto”, segnato con l’olio. In altre parole: consacrato e inviato per una missione.

È questo il senso di quella risposta da parte di Simon Pietro: “Tu sei colui che Dio ha mandato per dare senso (salvezza!) alla nostra vita. Tu ne sei abilitato: lo puoi fare”. Ma se è vero che la Parola di Dio colpisce nel segno solo quando entra nella nostra personale esperienza, allora è anche vero che quella risposta di Pietro ognuno deve poterla fare sua: “Tu sei il Cristo per me. Sei colui che Dio ha consacrato e inviato per dare senso (salvezza!) alla mia esistenza”. Che se poi questa risposta diventa convinzione che impregna davvero la vita, è proprio quest’ultima a lasciarlo trasparire: nelle situazioni più diverse. No, se siamo cristiani, non occorre gridare in piazza che apparteniamo a Cristo, ma nemmeno ci è lecito nascondere o mascherare la nostra appartenenza a lui. In chi altri potremmo riporre una fiducia altrettanto incondizionata? L’opinione pubblica che guarda a distanza, può limitarsi a definizioni più o meno generiche (rispettabili peraltro), ma chi gli è amico e familiare no, ne parla con affetto: “Tu sei il Cristo! Sei persona umana come sono io, ma sei anche l’inviato che può dare senso, sapore, a tutta la mia vita! Infatti, sei il Figlio del Dio vivente”.

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