I lettura: Atti degli Apostoli 2,14.22-33;
II lettura: 1Pietro 1,17-21;
Vangelo: Luca 24,13-35
Quanti partecipano alla Messa domenicale, dovrebbero ogni tanto potersi mettere al posto del prete e osservare le facce che hanno davanti. Facce attente, tutto sommato, ma anche espressive; su certune di esse sembra di poter leggere pensieri del tipo: “Sì, sì… quello che tu prete vai dicendo sarà pure interessante, anzi, sarebbe perfino bello se fosse davvero così… Ma la vita è tutt’altra cosa! Gesù Cristo era certamente un galantuomo, ha detto e fatto tante cose ammirevoli, ma la realtà è ben diversa!”. Al che, nessun prete dovrebbe scandalizzarsi troppo: chi può ignorare la fatica del credere, soprattutto in certe circostanze? A volte, guardo la realtà e penso: quante affermazioni strane facciamo nelle nostre Liturgie con i nostri canti, con le nostre preghiere, con i ritornelli che ripetiamo… Il Signore è risorto, è vivo, cammina con noi… (ma chi l'ha mai visto camminargli accanto?). È nella nostra vita che lui è presente, proprio quella di tutti i giorni, feriale, quotidiana… (ma non trovate che nella nostra vita, dal lunedì al sabato, ci sia tutto… tranne che Gesù Cristo?). Ci ama il Signore, non abbiamo idea di quanto smisurato sia il suo amore per noi: ci avvolge come l’aria che respiriamo… (ma allora, perché in certi frangenti, in certe prove, abbiamo la netta sensazione di dovercela cavare da soli?). Anche in quegli impegni che ci si prende sull’onda del volontariato, sia in ambito ecclesiale che sociale, la sensazione è sovente quella di essere abbandonati a se stessi: soli a decidere, soli ad impegnarsi, soli a cercare soluzioni o a portare avanti iniziative, soli a tirare la carretta insomma. E magari accade di prendersela con gli altri. Talora si diventa perfino acidi nelle valutazioni, se non addirittura intolleranti.
Comunque sia, smetto il ruolo di avvocato del diavolo (ruolo facile, del resto) e riprendo quello che mi spetta: portavoce di Dio, del vangelo. E chiedo: le nostre difficoltà nel credere, la sensazione di essere soli ad affrontare la vita, la diversità tra quello che si sperimenta ogni giorno e ciò che si sente all’Eucaristia… non ci rende un po' simili a quei due che camminavano verso Emmaus – come ci racconta il bel vangelo di questa domenica? Sì erano discepoli di Gesù Cristo, ma la loro fede si era intiepidita, anzi, si era semplicemente raffreddata. E con la fede, anche la speranza, che è quello sguardo positivo sulla vita che ti permette di andare avanti senza lasciar cadere le braccia… “Speravamo!” confessano quei due viandanti. Che vuol dire: ci siamo illusi. Le nostre speranze sono tutte congelate, morte.
Fa piacere trovare nel vangelo questi due discepoli, perché, tanto o poco, in certi momenti della vita, ci rappresentano bene. Se siamo onesti, lo dobbiamo ammettere: qualche volta ci ritroviamo pure noi a ripetere quella constatazione un po’ amara: “Speravamo”. Con l'unica differenza che quella constatazione la esprimono a Gesù stesso, senza sapere che è lui quel tale che si è unito a loro nel cammino. Ed è consolante constatare che Gesù, il Risorto, è rimasto profondamente umano, comprensivo. Capisce i turbamenti, i dubbi, la fatica nel credere… “Che discorsi state facendo? Sembrate un po’ abbattuti: perché? Cos’è che vi pesa sul cuore?”. Noi potremmo spiattellargli davanti tutte quelle lagnanze che ho elencato e altre ancora: lui ci ascolta. E dopo averci ascoltati, prende la parola. Quella di Dio (le Scritture, dice Luca), e via via che parla, a quei due si riscalda il cuore; la speranza – che era congelata – un po’ alla volta si scongela. Alla fine lo diranno: “Non ardeva forse il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”.
Qui c’è il vangelo per noi: saremo certi che Gesù è vivo, anzi, avremo la sensazione della sua presenza dentro la vita, solo se lui potrà dirci la sua Parola. Infatti, non sempre lo può fare, non a tutti la può dire, perché dipende da noi ormai, solo da noi. Se quando leggiamo o ascoltiamo il vangelo, pensiamo: “qui il Signore parla a me… queste parole sono per me”, allora sì, come è capitato a quei due di Emmaus, ci si sente scaldare il cuore; allora la speranza si scongela e torna ad animare la vita. Solo se le parole del suo vangelo possono arrivare al nostro cuore potremo animare di fede e di speranza la nostra esistenza quotidiana.
Quei due discepoli, sì saranno stati increduli, senza più speranza, delusi, però… parlavano di Gesù. Perché proprio di lui e non di un altro? Perché, nonostante tutto, lo amavano, non avevano smesso di volergli bene. E allora, quando ascoltiamo o leggiamo le parole di Cristo, ci sia amore nel nostro ascolto: amore per lui, Gesù, che ci ha liberati non a basso prezzo (come afferma Pietro, l’apostolo, nella seconda lettura) ma a prezzo del suo sangue, cioè della sua vita. Come non volergli bene? Allora le sue parole ci arriveranno al cuore e sapremo con certezza che lui è vivo ed è davvero con noi.
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