Il paradosso di un mondo sordo

Con “L’altro volto della speranza”, premiato a Berlino, il regista Kaurismaki ci offre un altro racconto emozionante e intenso

È per ora l’ultima perla della filmografia di Aki Kaurismaki. Con “L’altro volto della speranza” il finlandese ha vinto l’Orso d’argento, il premio per la miglior regia all’ultima Berlinale, seguendo la strada che lo distingue da tanti altri nel panorama cinematografico mondiale. Una purezza nel tratto stilistico, quasi algido, livido, surrealista, quell’uso di colori antinaturalistici che solo apparentemente comunicano asetticità e che, invece, al contrario danno sostanza e forma.

L’hanno detto probabilmente in tanti ma vale la pena ripeterlo. Ogni sequenza pare un quadro iperrealista alla Hopper. Anche qui. E come nel precedente “Miracolo a Le Havre” è storia di immigrazione ma, se proprio si vuole, anzi, si deve, è un altro capitolo di un racconto che fin dall’inizio Kaurismaki ha disegnato. Storia di “scarti”, di “rifiuti” umani, narrazioni minimali che corrispondono ad una precisa presa di posizione politica dell’autore che da poco ha compiuto 60 anni e ha firmato, con “L’altro volto della speranza”, il suo 17esimo lungometraggio. A Berlino ha infatti dichiarato: “Considero il maltrattamento di migranti e rifugiati un crimine contro l’umanità. Nei secoli passati l’Europa era il cuore della cultura dell’accoglienza, oggi è un covo di criminali che stanno distruggendo le democrazie. Non illudiamoci più di essere il centro del mondo: la nostra cultura vale un millimetro di polvere sul pianeta Terra”. Resterà probabilmente nella storia delle migliori sequenze degli ultimi tempi quella iniziale, l’emersione dell’immigrato Khaled, siriano scappato da Aleppo, che si solleva dal carbone depositato in una nave container attraccata nel porto di Helsinki. Il volto annerito, lo sguardo stralunato, deciso a chiedere asilo, che gli sarà negato perché nella città siriana non esistono effettive condizioni di pericolo tanto da poterlo concedere. E succede, non è un’invenzione, è il paradosso di un mondo sordo, di un Occidente che assomiglia sempre più a un bunker, a una fortezza ormai decadente e sbrecciata. Ma “L’altro volto della speranza” riserva anche momenti buffi, grotteschi, di rara intensità. Perché Wilkström (interpretato da Sakari Kuosmanem, attore feticcio del regista), il commerciante di camicie che abbandona la moglie senza una parola per inseguire il sogno di gestire un ristorante, che acquista dopo una notte di vincite al tavolo da gioco, è esso stesso l’immagine del grottesco, una maschera. E’ nell’incontro con Khaled, nel nascere di una solidarietà “degli ultimi” , quasi a dire che la speranza, forse, non è del tutto svanita, che il racconto trova la sua cifra morale. E’ in quel terzetto di dipendenti del ristorante che più scalcagnato non si può che la narrazione raggiunge momenti di toccante comicità. Una favola, è stato sottolineato da più di un critico. Di quelle che al cinema non ci si stanca mai di vedere, dove i singoli possono fare la differenza.

– – –

Film di denuncia

“Col cinema voglio cambiare il mondo”, ha detto il regista all’ultima Berlinale. E quando sono stati annunciati i premi, furibondo, non è neanche salito sul palco per ritirare l’Orso d’argento. Tanto che gli è stato portato in platea e Kaurismaki ha consegnato subito la statuetta appena ricevuta ad uno dei suoi attori. “L’altro volto della speranza” era dato da molti come il vincitore senza se e senza ma. Come a volte accade nei festival i pronostici non sono stati rispettati.

Il film è una denuncia, senza possibilità di smentita, sociale e politica, per il modo in cui la “vecchia” Europa spesso accoglie i migranti. Con cinismo e senza umanità. Pur con tutti i distinguo del caso.

vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina