A colloquio con Roberto Beretta che nel libro “Fuori dal comune” indica lo stile di “un amministratore volonteroso, stufo della politica clientelare”
“Guai alla politica considerata come un mercato”. Lo scrive l’inviato di Avvenire Roberto Beretta, brillante saggista, che dopo qualche anno anni da consigliere e assessore comunale in Brianza (ora ex) traccia un bilancio personale in un libro in uscita per EDB dal titolo “Fuori dal comune”. Sembra ancora convinto che la politica possa essere salvata “dal basso”, come dicono quasi tutti. A quali condizioni, Beretta?
Non so se può essere “salvata”, non pretendo tanto… Di sicuro però “dal basso” può essere fatta in modo diverso. La condizione fondamentale è quella di non “fare i politici” – nel senso di compiere scelte e prendere decisioni pensando soprattutto a garantirsi il consenso – ma di restare semplici cittadini volenterosi, buoni padri di famiglia, insomma uomini che si sforzano di pensare al bene di tutti. Persino quando ciò fosse impopolare.
Nella fase preelettorale di formazione delle liste c’è un’affollata corsa alla candidatura: dalla sua esperienza, tre buone ragioni sufficienti per convincere una persona a non candidarsi?
Non candidarti se hai paura di scontentare qualcuno: non saresti mai imparziale. Non candidarti se hai ambizione di far carriera: saresti ricattabile. Non candidarti se tieni sopra ogni cosa alla tua “buona reputazione”: le critiche ti pioveranno addosso inevitabilmente.
E al contrario, un buon motivo per “scendere in campo”?
Non avere nulla da guadagnarci e – nonostante ciò – aver voglia di metter le mani in pasta nel meraviglioso ma faticosissimo impegno di costruire il meglio possibile per il luogo in cui si vive.
Un capitolo del suo libro è intitolato: “In Regione (da noi si dice in provincia) col cappello in mano”. Qual è la tesi, in sintesi?
Nessuna tesi, ma un’esperienza ripetuta. Più si sale nella gerarchia della pubblica amministrazione, più si percepisce la lontananza (anche fisica: basta pensare a certe lussuosissime sedi regionali…) non solo dalla gente, ma dagli stessi rappresentanti della politica “minore”. Un povero assessore o sindaco dovrebbe essere aiutato nel suo duro compito, invece chi gli sta sopra – dal legislatore in giù – sovente genera ostacoli.
Ci spiega un altro titolo apparentemente contraddittorio: “Mediazioni sempre, compromessi no grazie!”.
Questo è secondo me un caposaldo del politico che vuole rimanere onesto. Mediazione vuol dire cercare il ragionevole punto di incontro tra posizioni diverse o anche opposte; compromesso significa invece mercanteggiare un accordo, tipo “una cosa a me, una cosa a te così siamo tutti contenti”. La tipica scorciatoia della politica “di scambio”.
Ad ogni latitudine politica si trovano “i nipotini malati di Machiavelli”. Di che malattia si tratta e come debellarla?
Il solito fine che giustifica i mezzi. E il fine – per un politico – è anzitutto il consenso, il plauso, la popolarità, i sondaggi favorevoli, il numero dei voti… Non ci rendiamo conto che si tratta di un sottile ricatto, a cui il politico (se desidera rimanere libero) deve avere il coraggio di sottrarsi: chi vuol vincere a tutti i costi, infatti, è disposto a farsi “comprare” da chi gli promette successo; e che poi gli presenterà il conto. E’ il tarlo della democrazia quantitativa: come sappiamo, non sempre la verità o il bene stanno dalla parte della maggioranza…
Un consiglio ai lettori del suo libro?
Smettere di considerare la politica come un mercato. Dove il candidato è anzitutto un venditore (di se stesso, del suo partito) e usa le solite tecniche dell’imbonitore di piazza: una bella immagine, il sorriso perenne ovvero la grinta decisionista, tante promesse, e così via. E dove l’elettore alla fine decide “di pancia”, lasciandosi convincere da chi gli assicura zero sacrifici e solo benefici. La vita non funziona così, lo sappiamo bene. E in Italia, finché ci regoleremo in questo modo, la buona politica non potrà nascere mai.
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