Coristi volontari cercansi per fare coro con i ragazzi

Il Coro Dolomiti il 5 febbraio 1956 all’apertura delle Olimpiadi invernali di Cortina

Lo spunto

Caro de Battaglia, m’incammino sui “Sentieri” sicuro di incontrare fra i lettori veri appassionati di canti della montagna, quelle nostre “cante”, che mi mancano molto dopo la “chiusura” del “mio” Coro Dolomiti. Non è solo nostalgia. Quando sfoglio la pubblicazione del 1999 per il 50° mi rattrista molto quel “non esserci più”, dovuto soprattutto all’assenza di ricambi giovanili.                                                                                                       Ricordo da giovinetto, a Cadine, le prime volte che ascoltavo “Quel mazzolin de fiori” o “La ven zò da le montagne”… che folgorazione gioiosa! È pur vero che oggi esistono tanti altri lodevoli complessi da apprezzare e che, fra un anno e mezzo circa, festeggeremo il centenario della coralità trentina: sia benedetto nel maggio 1926, al Castello del Buonconsiglio, quel gruppetto di amici guidato dal leggendario Nino Peterlongo che, dietro un paravento, presentarono il primo coro, il Sosat. Poi la famiglia canora generò altri cori, in tutte le valli, tanto che ora nostra la coralità è davvero un patrimonio culturale.                                                                                                                                                       Nel ’49 arrivò pure il “Dolomiti”. Fu il Maestro Aldo Lunelli, che già voleva fondare un suo coro, che passando già nel ‘48 in centro a Trento percepì da un sottoportico le voci spensierate di quattro ventenni, che cantavano forse anche per liberarsi dagli orrori della guerra finita da poco. Da lì sbocciò il “Dolomiti” e nella mia lunga vita di corista non dimenticherò mai i personaggi esemplari che venivano a trovarci e a incoraggiarci, come il mitico maestro della Sat, Silvio Pedrotti. Quando veniva invitato a intonare “La pastora”, accettava volentieri, ad una condizione: “Va ben, la fén, però la cantén pian”. Ed ora io sogno di veder ricompattato il “Dolomiti” almeno per una lunga “canta” vitale, se non subito, almeno in prossimità del 2028/29 per un ipotetico anniversario, un ottantesimo che ci siamo meritati. Se è vero che “chi ha in tasca un’armonica non sarà mai solo”, anche chi canta ha la garanzia di non incappare nella brutta solitudine, ma vivrà in serenità e condivisione di ideali. Lunga vita a chi ha la fortuna e il privilegio di cantare!

Italo Leveghi (Trento)

Gli spunti di Italo Leveghi non si riducono a ricordi nostalgici sul Coro “Dolomiti”, ma costituiscono un vero grido d’allarme sul futuro della coralità trentina, anche perché non sono isolati, ma riflettono la preoccupazione di altre realtà culturali e associative che lamentano la scarsità, o la mancanza, di ricambi giovanili nella musica corale. La quale, non va dimenticato, non è solo una risorsa di folklore o intrattenimento, ma è vera parte dell’identità trentina, della percezione del territorio, di chi lo vive, di come si manifesta, oltre che contributo originale del Trentino alla cultura alpina, un po’ come le bande lo sono per il Sudtirolo.

Al di là della parabola del Coro Dolomiti, promosso dal grande musicologo Aldo Lunelli, è tutto il percorso di avviamento alla coralità che va ripensato, anche alla luce dei mutamenti sociali intervenuti negli ultimi anni. S’è visto infatti che alla coralità non basta l’introduzione della cultura musicale alle scuole elementari e medie, e neppure appaiono sufficienti i generosi e qualificati insegnamenti di associazioni benemerite come i Minipolifonici. È il clima complessivo della coralità che va piuttosto ripristinato, il gusto di stare insieme, di condividere le esperienze, di trovare momenti comuni con i compagni, invece di limitarsi al solitario (e alla lunga frustrante) cliccamento autoreferenziale. Le generazioni precedenti iniziavano a cantare in coro a scuola, con il maestro (l’”Inno al Trentino” era il primo passo, quindi si passava al “Mazzolin di Fiori”, più difficile, ma legato ad esperienze comuni), poi proseguiva nelle gite scolastiche, sulle corriere. È lì che quasi tutti abbiamo imparato a cantare, ché gli accompagnatori intonavano un motivo e i ragazzi cercavano di seguirlo, magari stonando, ma l’importante era che lo stare insieme in coro entrasse nella mente e nel cuore. È questo che va ripristinato, innanzitutto. Più avanti si cantava in rifugio, magari attorno al fuoco, insieme. C’erano forse meno guerre allora, ma dalla Corea, congelata al 38° parallelo, si passò ben presto al Vietnam, ed una delle “cante” più gettonate era lo struggente “Ai preat la biele stele” perché il Signore fermi la guerra, che oggi è ancora più attuale di allora.

Lo spunto dell’ex corista Italo Leveghi, da questo punto di vista, invita innanzitutto a costruire comunità, e si rivolge quindi a chi ha la responsabilità dell’educazione dei giovani e del sistema scolastico. Anche la Federazione dei Cori, e i cori maggiori, potrebbero forse dare una mano, selezionando al loro interno alcuni coristi volontari disponibili ad accompagnare i ragazzi nelle loro gite o ad entrare per alcuni momenti nelle scuole per cantare insieme. Fra qualche anno potrebbe anche rinascere, per realizzare il sogno di Leveghi, un nuovo “Coro Dolomiti” frutto dell’incontro dei più volonterosi, segno di comunità che vogliono armonia, non litigi.

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