Nella primavera di 26 anni fa lo sbarco in Trentino di quasi 400 albanesi. Accolti alla caserma “Degol”, poi trasferiti in vari centri. Un’odissea ripercorsa ora in un libro, ancora attuale
Era un grigio venerdì di Quaresima, quel 15 marzo 1991 quando il treno della Valsugana scaricò 365 profughi albanesi destinati a Strigno, ultima , o meglio prima tappa di un’”odissea della speranza”, come titolò Vita Trentina paragonando l’esodo a quello dei valsuganotti qualche anno prima a Stivor in Bosnia.
Non erano turisti, ma giovani donne, bambini e papà in fuga da un potere tirannico, ostaggio di una crisi economica: “Siamo fuggiti da una situazione impossibile, dove il governo di stampo staliniano nega ogni libertà; sappiamo invece che l’Italia è il paese dell’amicizia e della bontà”, ci dissero subito nel loro stentato italiano appreso nei programmi televisivi. Come loro, in quell’anno, altri 40 mila albanesi erano fuggiti imbarcandosi su enormi navi dai nomi simbolici (“Illiria”, “Vlora”)” e approdando stremati sulle coste pugliesi. Dopo l’accoglienza di un piccolo gruppi di polacchi nel 1985 alla Croce Rossa di Levico, fu un esame per la Protezione Civile trentina. Forse, anche la provvidenziale “prima volta” di un’accoglienza di massa che col tempo coinvolse tante altre comunità trentine. “Partimmo subito con i corsi di italiano. Si fece il giro di tutti i Comuni per chiedere lavoro e ospitalità – ricorda Rita Bonzanin, allora responsabile della Protezione Civile – a fine giugno siamo riusciti a collocare la maggior parte di loro. Il campo vero e proprio è stato chiuso e le persone rimaste sono state alloggiate nella vecchia scuola di Strigno”.
Questa e molte altre testimonianze sono state raccolte da Eleonora Zefi, sociologa e mediatrice culturale, responsabile dell’associazione di albanesi “Teuta”, che ha dato alle stampe (Edizioni Velar Marna) “Il treno che tratteggiò una storia”, volume ricco di fotografie (il reportage di Roberto Bernardinatti) e di testimonianze anche altoatesine (altri 300 albanesi furono ospitati a Monguelfo). Ci sono le voci del sindaco di Strigno Enzo Zanghellini, del dirigente provinciale Marco Viola, di tanti volontari e soprattutto delle famiglie che “adottarono” alcuni albanesi, consolidando legami.
Non è stata una favola per tutti a lieto fine, ma un grande banco di prova, dentro il quale leggere anche scelte future: si pensi al modello dell’accoglienza diffusa per evitare il “rischio ghetto”, l’attivazione di tante reti comunitarie (associazioni sportive, oratori, alpini…) e anche l’introduzione della figura-cardine dei mediatori culturali, interpreti di fiducia delle esigenze e dei diritti-doveri dei profughi.
L’accoglienza venne fin dai primi giorni demilitarizzata e la ricerca di soluzioni occupazionali innescò molte disponibilità. Si verificò peraltro il problema che alcuni albanesi lasciarono il lavoro per potersi ricongiungere con i famigliari arrivati in altre città italiane. Non venne trascurata anche la dimensione religiosa: il vescovo Giovanni Maria Sartori e l’allora parroco di Strigno, l’indimenticabile don Gianni Chemini, vissero la Pasqua insieme agli albanesi.
“Questo volume ha il merito di mostrare – scrive l’Arcivescovo emerito Luigi Bressan nella prefazione del libro – che in queste situazioni una crescita è possibile e l’inserimento nella società civile è fattibile: il treno avanza ancora!”.
Sono ancora 7 mila gli albanesi in Trentino: alcuni sono diventati validi imprenditori, hanno un’associazione culturale “Teuta”, qualcuno ha chiesto il battesimo da adulto, portando testimonianza di fede. C’è anche chi – e il libro non lo dimentica – ha intrapreso anche strade sbagliate, ma le testimonianze positive servono anche oggi a favorire l’integrazione. Strigno divenne come Tirana il “Paese delle aquile” e a non pochi profughi colpì la presenza del volatile rapace anche sullo stemma della nostra Regione. Il sostegno reciproco di quelle ali può sostenere ancora il volo di altri immigrati, appresantiti dalla loro storia, nella nostra terra accogliente. All’insegna del gesto che mi colpì davanti al reticolato della caserma “Degol”: due ragazze di Strigno da fuori chiesero ad un militare di passare due caramelle in regalo ai marmocchi albanesi con gli occhietti avidi. L’alpino eseguì per la felicità dei bimbi.
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