La vera novità della manovra finanziaria 2025 dello Stato è di essere la prima varata sotto la guida del «Piano strutturale di bilancio di medio termine 2025-2029» (PSB) che il Parlamento ha approvato il 9 ottobre, con previsioni estese al 2031, per una durata totale di sette anni.
Imposto dalla revisione del Patto europeo di stabilità e crescita, il PSB, pur non rinunciando all’azione di stimolo all’economia, è soprattutto una traiettoria di riequilibrio dei conti pubblici. Una traiettoria perseguita – novità nella novità – ponendo un tetto alla «spesa primaria netta» (cioè il totale delle uscite pubbliche esclusi gli interessi passivi sul debito, le spese finanziate con nuove entrate o risorse europee e talune spese cicliche per la disoccupazione) il cui aumento medio annuo, nel corso dei sette anni, non dovrà superare l’1,5% del PIL. Dunque, per curare i Paesi malati di debito pubblico, accanto alle solite ottimistiche aspettative sulla crescita e sui frutti della proclamata lotta all’evasione fiscale, bisogna anche frenare la spesa e con essa i deficit di bilancio. Come per la cura di un obeso, oltre alla ginnastica, non si può prescindere dalla dieta.
Il PSB sostituisce di fatto il Documento di Economia e Finanza (DEF) e la Nota di aggiornamento (NADEF), ma è più vincolante di questi, in quanto modificabile soltanto per eventi eccezionali o cambi di governo. Il nuovo documento, oltre agli obiettivi finanziari, contempla anche una serie di riforme e di investimenti su giustizia, fisco, aiuti alle imprese, concorrenza, spesa e amministrazione pubblica. Da questo mix, che consentirà all’Italia di uscire dalla procedura per disavanzo eccessivo nel 2027, scaturisce una manovra finanziaria che resta comunque una coperta corta. Molto meglio delle precedenti, cantano i cori di lode della maggioranza meloniana, mentre l’opposizione grida all’insufficienza di aree di spesa ad alto impatto sociale. Queste posizioni estremizzate rischiano di far perdere di vista il passaggio cruciale che la finanza pubblica italiana sta tentando di compiere: disintossicarsi dal debito.
Detto con le parole del ministro Giorgetti, nell’audizione parlamentare dell’8 ottobre, il PSB «affronta i principali problemi del Paese e delinea un percorso di rientro dai deficit accumulati negli anni recenti» in modo da «assicurare … un aggiustamento dei conti utile a migliorare la reputazione e l’attrattività dell’Italia». C’è da sperare che queste impegnative finalità trovino un più largo consenso.
L’enfasi sull’incremento di singole voci di spesa (stanziato o invocato) non dovrebbe mettere in subordine l’obiettivo virtuoso del contenimento della spesa complessiva, vitale per un Paese indebitato, e dunque meritevole di sostegno. Alle parti politico-sociali non mancano ampi spazi di confronto sul piano redistributivo, visti i fabbisogni di spesa pubblica fagocitati da sacche d’inerzia e d’inefficienza, da eccessi normativi e burocratici e da improprie sovrapposizioni fra pubblico e privato. Servirebbero a tal fine una spending review autorevole, non episodica ma continuativa, un fisco più equo e altre riforme indicate dal PSB. E servirebbe anche alzare di più lo sguardo verso le grandi crisi della nostra epoca – demografica, ambientale, climatica, industriale, sociale – non di rado a loro volta messe in sottordine, nonostante i drammatici allarmi che ci stanno inviando. Con conti pubblici più solidi questo «sguardo alto» sarebbe decisamente più penetrante.
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