Ha vinto Trump, non vinca il trumpismo

Trump sul palco di Palm Beach dopo l’esito delle elezioni del 5 novembre. © Foto ANSA/Sir

“Questa sarà l’età dell’oro dell’America – ha proclamato Donald Trump all’alba italiana del 6 novembre -, la renderemo grande di nuovo!”. Come se i quattro anni dalla sua rovinosa uscita di scena fossero soltanto un breve spiacevole intervallo di una storia comunque guidata da lui, l’uomo della Provvidenza. Tanto che riferendosi all’attentato in cui è rimasto “miracolosamente” solo ferito nel mese di luglio ha commentato: “Dio mi ha risparmiato la vita per un motivo”. Un predestinato che ora può celebrare se stesso come salvatore della patria e del mondo? Non tutti lo credono.

Non lo crede quell’altra metà dell’America di fede democratica che confidava in Kamala Harris, nella sua capacità di rilanciare in pochi mesi la corsa azzoppata di Joe Biden. E in un Paese mai così polarizzato, spaccato a metà fra repubblicani e democratici, è stata forse proprio la personalità dei candidati a scavare la differenza, consegnando alla fine a Trump in misura imprevista anche la maggioranza del voto popolare e i due rami del Congresso. Un “voto di pancia più che di testa”, si è scritto, nel quale determinante è stata la delusione nelle tasche di tanti americani del ceto medio che hanno ritenuto troppo debole la politica economica di Biden e troppo poco decise le sue scelte sullo scenario mondiale. A molti di loro il redivivo Trump sembra garantire più “protezionismo”, più sicurezza, più muscolarità. Un approfondimento a parte meriterà il tema cruciale dell’aborto (trasversale nei singoli Stati come si è visto anche nel parallelo referendum) in cui Trump è stato ritenuto difensore del valore della vita e non incoerente rispetto alla deportazione in massa da lui prevista per ogni immigrato non gradito (che pure è una persona).

Nel dopo voto misureremo la civiltà democratica degli americani (sperando di non dover assistere ad altri “assalti” ai palazzi del potere o ricorsi legali), che ora si ritrovano a dover fare i conti con uno stile che sembra aver contaminato anche altri Paesi: il trumpismo, un termine che è entrato ormai nei libri di storia, ma che sembra avere purtroppo grande futuro.

Rappresenta una parabola di quella tendenza alla personalizzazione politica ormai dilagante ad ogni latitudine, favorita dal venir meno dell’intermediazione del “quarto potere” di media liberi e critici. Conta il leader più del simbolo del partito, la battuta ad effetto più che la piattaforma programmatica: anzi, il leader può anche solo apparire senza parlare, mezzo minuto in silenzio, gli occhi chiusi, come ha fatto Trump presentandosi al microfono del Centro Congressi di Palm Beach per il primo teatrale discorso ai suoi fans. Ancora meglio se ha un passato di star televisiva, regista di sè stesso anche nell’introdurre i propri familiari e il proprio entourage a prendersi tutti gli applausi su un  palco che sembrava una foto di matrimonio, genero compreso: lo Stato come un’azienda di famiglia. Chi ha descritto il trumpismo come un’ideologia ritiene che si dovrebbe parlare di una “democrazia illiberale” perché – pur in un apparente libero mercato – le misure in campo economico sono di stampo protezionistico, spesso a favore di un potentato imprenditoriale “amico”: esemplare a questo proposito l’apparizione rassicurante di Elon Musk, anche nel momento iconico del trionfo, presentato da Donald come “un super genio da proteggere”. Un’investitura che ci fa capire dove andranno molte delle scelte trumpiane nell’ambito delle supertecnologie e dell’intelligenza artificiale. Nell’altra sfida globale, quella ambientale, Trump ha già mostrato il suo (basso) livello di responsabilità sociale.

Ha detto “Fermerò le guerre”, infine, una delle profezie con cui pure ogni trumpismo cerca di legittimarsi: però lo stesso rieletto Presidente sa che il mondo oggi è molto più diviso e sanguinante di quattro anni fa, la Cina più forte, Putin più sfiancato. Ma di questo parleremo anche la prossima settimana.

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