Silvia Burrini, 77 anni, da oltre mezzo secolo al fianco degli immigrati italiani in Germania come assistente sociale della Caritas. “Siamo stati dei pionieri”
Vigo Rendena, 21 settembre – Dalle finestre di casa Burrini si vede la chiesa di san Lorenzo. Silvia le spalanca facendo entrare il sole che riscalda il paese in questi ultimi giorni di settembre. “Vede, proprio là dietro c’è la ditta di mobili imbottiti per la quale incominciai a lavorare dopo la morte di mio padre”, dice indicando al di là della provinciale che passa all’interno del paese. “Avevo quindici anni, le ore non si contavano, guadagnavo pochissimo. La ditta fallì quasi subito e per una ragazza della mia età non c’erano prospettive. Ma poi la Provvidenza cominciò a mostrarmi il suo disegno…”.
Pochi mesi dopo una famiglia trentina di “moleta”, come venivano chiamati in dialetto gli arrotini, partita dalla Rendena, le chiede di seguirla in Germania. Lei ha sedici anni e mezzo. Accetta. Il “disegno” prende forma quando tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, a Friburgo, si avvicina alla Caritas locale nella quale trova impiego come assistente sociale. Completa gli studi in Italia e a 33 anni fa ritorno in terra tedesca. Alla fine degli anni settanta si trasferisce a Ludwigshafen, dove oggi, 77 anni e oltre mezzo secolo a fianco gli immigrati italiani, prosegue la sua opera da instancabile volontaria.
Una vita in prima linea che, ricorda con orgoglio, le è valsa l’onorificenza di ufficiale dell’ordine della “Stella d’Italia” consegnatale nei mesi scorsi. Il racconto si interrompe per qualche istante. Frau Burrini, come la chiamano i suoi ragazzi, va a prendere il cofanetto che racchiude anni di lotte. “Eravamo pionieri”, dice. “Quando abbiamo cominciato il nostro lavoro, nei primi anni sessanta, la parola ‘integrazione’ non si trovava sul vocabolario. La politica era molto in ritardo, il popolo tedesco impreparato”.
Gli stranieri sono considerati soltanto braccia, forza lavoro. Baracche, nostalgia, discriminazioni e l’ostacolo, spesso insormontabile, della lingua. Manca tutto, bisogna farsi in quattro, correre dagli ospedali ai tribunali, dagli studi medici a quelli legali. “Mi aveva sempre affascinato l’idea di andare lontana, di partire in missione per l’Africa”, spiega Silvia. “Poi, mese dopo mese, ho capito che non serviva andare così lontana, il terzo mondo era già lì, davanti ai miei occhi. Ci siamo messi per strada con gli immigrati italiani, sentendoci veramente Chiesa, avvocato dei poveri e dei maltrattati. E mi creda, le opere di misericordia sono più di 14…”.
Frau Burrini ha la lungimiranza di guardare oltre l’emergenza. “Avevo visto le umiliazioni subite dai genitori, per i figli doveva andare diversamente, anche per garantire la pace sociale”, ricorda Silvia. Una montagna da scalare, una battaglia culturale su più fronti. Da una parte le famiglie, spesso poco interessate alla formazione dei propri figli, dall’altra il sistema scolastico con le “classi di inserimento”, pensate inizialmente per facilitare il percorso degli stranieri ma diventate una sorta di “ghetto”.
“Il loro fallimento era chiaro , andavano abolite. Arrivata a Ludwigshafen, nel 1979, ho trovato ragazzi che le frequentavano da cinque, sette, perfino nove anni, senza mai approdare alla scuola 'normale'. E alla fine nelle loro mani non avevano un diploma ma un pezzo di carta, inutile per il lavoro. A 15 anni li vedevi tutto il giorno per strada a correre dietro a un pallone”.
Anni di notti insonni, arrabbiature, solitudine, le ferite delle parole di chi ti dice di mollare. “Andrai in pensione e avremo ancora le classi di inserimento, mi dicevano. Pensate alla soddisfazione di vederle abolite nel 1989, con tutti i bambini che dalla prima frequentano la scuola tedesca. E ora si raccolgono i primi frutti perché da quella seconda generazione sono venuti fuori medici, giornalisti, scrittori, ingegneri, assistenti sociali, infermieri”.
Dal secondo dopo guerra, l'emigrazione dall'Italia verso la Germania non si è mai arrestata. “A Ludwigshafen c'è una grande comunità italiana: 7 mila persone, solo i turchi ci superano in numero. Oggi chi viene qui cerca lavoro e una sistemazione per la propria famiglia, vuole dare un futuro migliore ai figli. Ma non è facile”. Non dimentichiamo chi fugge dalle guerre e dalla fame. “Qualche anno fa ho collaborato alla redazione del Piano nazionale per l'integrazione. L'ho ribadito anche in quell'occasione: pensate ai bambini, subito, dal primo giorno. Perché l'integrazione parte dalla lingua, con i corsi, all'asilo e a scuola. La convivenza e la socializzazione si imparano da piccoli”.
Suonano le campane. Mezzogiorno. Silvia si alza, dà un occhiata alla chiesa, chiude le finestre. È un arrivederci che sfuma nell’aria fresca di settembre. Il pensiero già in viaggio, ai suoi 30 bambini dalla seconda alla quinta classe iscritti al servizio di aiuto compiti. Silvia lo ha avviato 34 anni fa, ancora oggi ne è l'anima. Il pensiero di mollare non la sfiora nemmeno. “Ho ancora troppa voglia di lottare”, sorride determinata. “Dopodomani si riparte. C’è ancora tanto da fare”.
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