Il fascismo in Alto Adige, raccontato dal cronista: il libro di Maurizio Ferrandi

Le marce fasciste su Bolzano e Trento, tra la fine di settembre e i primi di ottobre del 1922, mandante Benito Mussolini, furono la prova generale di quella su Roma che, da lì a poco, seppur sgangherata, come da più parti sottolineato, diede l’avvio al Ventennio. Lo mette in evidenza il giornalista Maurizio Ferrandi nel suo recente “Camicie nere in Alto Adige (1921-1928)” pubblicato da Edizioni alphabeta Verlag che si avvale dell’introduzione e di un saggio dello storico altoatesino Hannes Obermair.

Certo, per l’Alto Adige/Sudtirol la variabile etnica fu la miccia che segnò un’azione violenta in una terra come quella sudtirolese, a maggioranza tedesca, annessa al Regno, insieme al Trentino, dopo la Prima guerra mondiale. Poco incline a sottostare al dettato romano, nonostante le incertezze e le inadeguatezze di una classe dirigente liberale capitolina ormai consunta, incapace di “indirizzare”, diciamo così, una politica locale erede dei partiti dell’Impero asburgico riuniti nel Deutscher Verband, dai forti connotati autonomistici e da spinte pangermaniste.

Gli squadristi, guidati, tra gli altri, da Achille Starace, che diventerà uno dei maggiorenti del fascismo montante, occuparono a Bolzano una scuola portandoci sui banchi gli alunni di lingua italiana e cacciarono dal municipio l’anziano borgomastro Julius Perathoner, in carica da un quarto di secolo.

“Il proposito ultimo – scrive Ferrandi – era quello di ribaltare l’assetto democratico della città”. Furono botte, una trentina i feriti mentre le forze di pubblica sicurezza se non conniventi non è che si siano dannate l’anima per contrastare i fascisti. Obiettivo, a Trento, fu Luigi Credaro, commissario civile per la Venezia Tridentina (Trentino e Alto Adige) avversato dai nazionalisti e dai fascisti, che lo ritenevano incapace di italianizzare il Sudtirolo i cui vertici politici, invece, rivendicavano un’ampia autonomia. Credaro, a mal partito, lasciato solo dalla capitale, se ne andò.

Ferrandi fa precedere il racconto delle scorribande squadriste a Bolzano e Trento da un lungo capitolo dedicato a Luigi Barzini, inviato di punta del Corriere della Sera diretto da Luigi Albertini, al tempo il maggiore quotidiano italiano, espressione della borghesia liberale, arrivato nel capoluogo altoatesino nel 1921 a seguito di un fatto di cronaca. Per quattro mesi “randellò” sia la politica romana che quella sudtirolese. Riassumendo, Barzini scriveva: “Possibile che questo baluardo formidabile (il confine del Brennero, ndr) non conti più niente, che la conquista (dell’Alto Adige, come del Trentino, al termine della Prima guerra mondiale, ndr) sia perduta, soltanto perché noi ci siamo dimenticati di governare pochi tedeschi?”. Non rimane che riferire di un episodio emblematico e di una curiosità.

Nella Bassa Atesina, dove, a Salorno e dintorni, fu forte l’immigrazione agricola trentina fin dalla fine dell’Ottocento, il parroco si intestardiva a celebrare la messa in tedesco, con annesso arrivo, anche lì, delle squadracce fasciste. Fino a quando la Diocesi di Trento lo rimosse. Alla marcia su Bolzano, invece, partecipò, anche, tal Luigi Barbesino. Che tal, alla fin fine, proprio non era, a dire il vero. Nel 1912, diciottenne, giocò infatti le Olimpiadi svedesi indossando la maglia della nazionale di calcio e due anni dopo vinse lo scudetto con il Casale. Nel 1936 allenò la Roma sfiorando la vittoria nel massimo campionato. Nel 1941 sparì nel canale di Sicilia mentre era a bordo di un aereo da combattimento. Non se ne seppe più nulla. Un romanista come il pluri presidente del Consiglio Giulio Andreotti, ricevendo in Senato i vertici societari del Casale calcio nel 2010, ebbe a dire: “Grande personalità, spiccate doti di comando, incuteva soggezione e a tratti anche un po’ di antipatia per il suo carattere dall’apparenza superba”. Un parere autorevole di un ormai anziano tifoso.

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