Gli spunti:
Caro Franco de Battaglia, continuo a seguire su Vita Trentina “Sentieri” che trovo in grado di ampliare lo sguardo su tematiche che riguardano l’uomo e il suo contorno. Mi è piaciuto molto quanto riportato nella sua rubrica a proposito del vescovo di Bolzano-Bressanone mons. Ivo Muser e anche l’ultimo scritto dedicato a Livia Battisti. Per la verità, volevo condividere con i lettori alcune considerazioni sul concerto che Roberto Vecchioni ha tenuto nella fassana Val Duron il 29 settembre e di cui ha parlato anche Vita Trentina. Il cantautore era emozionato per la presenza di 8mila persone al suo concerto ed è riuscito a trasmettere ai presenti l’emozione e l’autenticità delle sue parole. Scrivo qui le sue espressioni che più mi hanno colpito, riportate anche da alcuni giornali: “- Smuovere le coscienze per lo più inaridite; – Rimettere in gioco un po’ di slancio fa venir voglia di essere migliori e di provare a cambiare il flusso inesorabile della grigia quotidianità; -Una provocazione per tutti, compresa una Chiesa immusonita: cambiare non solo è possibile, è doveroso; – La politica del muro contro muro non appassiona più e ha reso superfluo anche il voto, apice della democrazia”. Quest’ultima affermazione mi sembra grave. Avevo bisogno di condividere i sentimenti che aveva suscitato in me Vecchioni. Con un saluto e un augurio.
Luisa Romeri (Spiazzo Rendena)
Il concerto di Vecchioni in val Duron, snodo centrale fra le più note e amate montagne dolomitiche (Sassolungo, Catinaccio, Alpe di Siusi…) e antica via di collegamento fra Fassa e Gardena verso l’Alto Adige, si presenta con molte chiavi di lettura. La prima è quella ambientale, con la dimostrazione che se la montagna unisce i suoi profondi silenzi a buone parole o a suoni che non siano di strepito, riesce ancora a richiamare folle che non sono di “overtourism”, ma possono forse paragonarsi a pellegrinaggi laici, là dove chi sosta e ascolta può trarre riflessioni e spiritualità, contemplazione (non solo di bellezze) davvero “fra cielo e terra”. Ma per questo occorre che la montagna mantenga il suo stile e i suoi filtri naturali, non che venga lasciata alla motorizzazione, alla meccanizzazione, al consumismo. Sotto questo punto di vista, infatti, anche Duron si presenta a rischio come molte altre valli dolomitiche fra le più celebrate e va difesa con attenzione nella sua preziosa integrità. Solo se chi la percorre potrà “immergersi” in essa (e non solo farvisi trasportare), si potranno “smuovere le coscienze inaridite” ed anche la Chiesa potrà recuperare una letizia francescana smarrita, se mai, non certo per colpa dei suoi sacerdoti, che vivono, di fatto, in umiltà e povertà, ma forse per aver ingabbiato messaggi e testimonianze in ritualità liturgiche di impronta troppo teologica, rinunciando ai cori di lode e agli inni di gioiosità evangelica che pur non mancavano nei suoi annunci.
La montagna, in questo, è un’esperienza e una “scuola” di profonda lode al creato e al Creatore e ben lo sapevano i tanti preti che la domenica salivano ai rifugi e vi celebravano la Messa all’aperto. Il francescanesimo, cui l’attuale pontificato esplicitamente si richiama, non è infatti solo rinnovare aiuto e attenzione ai poveri, agli “ultimi”, ma la capacità di vedere anche nel volo mattutino delle allodole l’annuncio di una nuova alba, e, assieme, un paradigma del volo degli angeli (come scrive Franco Cardini nella sua recente biografia sul santo di Assisi). C’è da aggiungere che forse ad essere “immusonita” non è tanto la Chiesa, ma lo sono i cristiani che litigano fra di loro e spesso non si parlano neppure. Ma ognuno, su questo, sa come interrogarsi.
Centrale, nell’incontro in val Duron, risulta poi la denuncia della politica del “muro contro muro”, perché allontana la gente – i cittadini e gli elettori – dal partecipare alla cosa pubblica, dal sentirsi coinvolti posto che lo scontro rissoso confonde le ragioni, da una parte e dall’altra, in un reciproco comune insulto. Si alimentano così non parti o posizioni diverse, ma tifoserie da stadio. Accentua la volgarità insopportabile della rissa l’uso abnorme dei mezzi di comunicazione digitale, dei “social”, costruiti su scambi verbali più che su argomentazioni ideali, irridendo quasi all’antica saggezza – questa sì sociale e popolare – che invitava a pensare prima di parlare e a contare fino a dieci prima di rispondere ad una osservazione. Anche per questa deriva di comunicazione (ma ben più per le guerre in corso) la democrazia appare obiettivamente a rischio, come rivela lo stesso dibattito politico nel Paese che l’ha esportata nel mondo, gli Stati Uniti. Anche su questi limiti invitano a riflettere le parole udite fra i monti dolomitici. La democrazia è un grande traguardo raggiunto dalla società occidentale, ma resta un sistema politico, un metodo di lavoro, non può essere trasformata in un idolo assoluto, in una “democracy” buona per tutte le latitudini e tutte le stagioni. Altri Paesi, con popoli di diverso carattere ed altra storia, possono – se mancano alcune condizioni di base – legittimamente ricorrere a sistemi diversi. Forse se l’economia accentua le sue tendenze speculative, per cui il “mercato” finisce in mano alle mafie dotate di “liquidità” e alle nuove baronie multinazionali , se (vedi Usa) i candidati alle massime cariche dipendono dai “sovventori”, dai capitali che essi offrono o ritirano, anche nei nostri Paesi una riflessione andrà operata. Non basta dire “democracy” ed allargare l’Europa per risolvere i problemi.
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