Sedimentati i commenti a caldo sull’esito delle elezioni liguri, questa volta registrando anche un grande successo dei rilevamenti demoscopici che ci hanno preso da subito, resta il tema di quali lezioni trarranno i partiti da questo test, certo limitato nei numeri, condizionato da un contesto particolare (scioglimento anticipato della legislatura per il caso Toti), ma pur sempre portatore di elementi interessanti. Il primo è un sistema che ormai si organizza su base bipolare: due coalizioni si contrappongono e fuori di esse non ci sono spazi per nessuna “terza forza”. Quel che invece risulta evidente è che in ciascuno dei due campi si pone la questione di come caratterizzarsi rispetto a ciò che si potrebbe definire il centro, o, se preferite, ad una politica che si allontana dai furori dei vari radicalismi.
In Liguria il destra-centro sembra avere colto questa sfida, probabilmente perché i pronostici lo davano in forte svantaggio (inizialmente si era parlato di 10 punti di distacco dal blocco concorrente): così non solo Meloni ha fortemente voluto un candidato “civico”, un amministratore che aveva un suo carisma come uomo che aveva gestito il grande problema del ponte Morandi, ma la stessa Lega ha convenuto che quella fosse la strada giusta. Alla prova dei fatti la scelta è stata premiata, sia pure per il rotto della cuffia. Pensiamo che nella nuova strategia abbia un poco pesato il clamoroso flop della candidatura “identitaria” di FdI alle elezioni sarde (anche lì perse per un soffio). Continuerà su questa strada il destra‑centro? Non è che siano solidi segnali per confermarlo, anche se il successo di Bucci rafforza la guida di Giorgia Meloni, che però sinora tiene il piede in due scarpe: quella del conservatorismo moderato e quella della destra che sogna la rivincita totale con l’occupazione del potere, come avevano fatto le maggioranze precedenti. In Emilia Romagna, sempre perché parte da una situazione svantaggiata, la destra ha fatto l’investimento di una candidata civica, Elena Ugolini, che però non ha il carisma di Bucci (non sappiamo se le darà una spinta sostanziosa il suo rapporto con Comunione e Liberazione che nella Romagna ha un buon insediamento). In Umbria è stata costretta a far quadrato sul governatore uscente leghista, che non si sa quanto possa essere una scelta vincente.
Del tutto diverso il quadro nel blocco del cosiddetto campo largo. In Liguria è mancata sia una direzione locale forte (Orlando è un paracadutato) sia una leadership nazionale e questo ha lasciato spazio alle scorribande senza capo né coda di Giuseppe Conte e al condizionamento dell’estrema sinistra di AVS. Queste slabbrature hanno impedito di strappare un po’ di voti all’elettorato non radicalizzato che o se ne è stato a casa (46,9% la partecipazione al voto) o ha votato per Bucci.
La tecnica di Schlein, che Orlando non ha saputo neutralizzare, di spazzare la polvere sotto il tappeto non ha pagato: non basta chiamare a raccolta su grandi temi, peraltro poco suscettibili di apparire realistici (tipo la riforma della sanità pubblica), evitando di misurarsi con il vero nodo della questione: la sinistra sui grandi interventi strutturali che sono necessari, tanto più dopo il diluvio delle ultime settimane, non può evitare di prendere posizione davanti agli utopismi dei Cinque Stelle e dell’estrema sinistra. Vale anche per la politica estera, che magari impatta in maniera meno forte, ma comunque tocca la sensibilità di una opinione pubblica che vede quel che sta accadendo nel mondo.
A questo punto il vero nodo sta nel PD che deve uscire dall’utopia di fare il federatore di un coacervo di sigle. Già non è andata benissimo coi due tentativi di Prodi, nonostante che allora la maggior parte delle sigle qualche significato lo avessero, figurarsi adesso che ogni sigla è una società di mutuo soccorso fra professionisti della politica guidati da un capo che mira a consolidare una posizione personale. Il partito democratico che, piaccia o meno, è rimasto l’unico ad avere un consistente radicamento territoriale e di consenso deve puntare non a federare cespugli e cespuglietti, ma ad attrarre nel suo seno le forze riformatrici che non credono al conservatorismo delle destre (e men che meno alle sue demagogie). In fondo è quello che fece il vecchio PCI negli anni Settanta andando molto vicino ad un successo, mancato perché anche allora una parte della sua dirigenza volle strafare, convinta di avere le chiavi per avviare una nuova era.
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