Il tema della Festa dei popoli al centro di un confronto diocesano giovedì scorso a Trento
Chi sono e come vivono i figli degli immigrati? Si sentono più italiani o più stranieri? Hanno le stesse opportunità dei loro coetanei autoctoni? Come immaginano il loro futuro? E ancora, come riescono a conciliare la cultura dei loro genitori con usi, costumi e regole del Paese in cui sono cresciuti?
Proprio per comprendere i bisogni, i problemi, ma anche le aspirazioni e i sogni dei “nuovi cittadini” la Diocesi di Trento ha dedicato, giovedì 11 maggio, un momento di riflessione sulle seconde generazioni di immigrati, molti dei quali nati e cresciuti in Trentino oppure arrivati in tenera età o già in fase adolescenziale. In sala Bernardo Clesio si sono alternate le voci di esperti impegnati nelle associazioni e nelle istituzioni su questi temi.
Oleksandra Kalapach, mediatrice culturale originaria dell’Ucrania, ha focalizzato il suo intervento sul percorso di ricongiungimento familiare, una volta raggiunta una certa stabilità economica e abitativa da parte del genitore immigrato in Italia. “Non è facile – ha spiegato – ricostruire legami interrotti da una lontananza affettiva oltre che spaziale vissuta dal figlio come un abbandono totale. Ne deriva sia una sofferenza per l’adulto sia uno stato di spaesamento e di disagio nel bambino che, non parlando la nuova lingua, non riesce ad esprimere i propri bisogni a scuola. In questa dinamica è importante investire nella mediazione culturale per facilitare l’inserimento scolastico e il rapporto con le famiglie”. Hanno invece il problema opposto i figli di immigrati nati e cresciuti in Italia. “Capita spesso che in casa parlino solo la lingua italiana perdendo la loro identità linguistica, usanze e valori della loro terra, tanto che se tornano nel loro Paese di origine si sentono stranieri, manifestano crisi di appartenenza e conflitti integenerazionali”. Per questo sono stati avviati laboratori e corsi per imparare la lingua di origine. Ed è tra i banchi di scuola che si gioca la partita dell’integrazione. Elena Pasolli, docente di italiano al “Tambosi”, ha evidenziato alcune criticità nel processo educativo. “La strada è in salita, si è puntato molto sull’apprendimento linguistico – ha spiegato – quando in realtà ogni popolo ha dei propri codici culturali tradizionali per esprimere lo stesso pensiero, codici che gli insegnanti nella massa dei 25 alunni per classe non sempre riesce a cogliere”. C’è poi il rischio di assimilazione. “Spinti dalla necessità di non essere accomunati all’etnia o al gruppo di appartenenza – aggiunto ancora – nella ricerca di essere ‘uguali’ ai loro coetanei per sentirsi accolti senza pregiudizio. Ne consegue una grave perdita di identità culturale”. La grande sfida in ambito scolastico è quella di “costruire insieme un orizzonte comune per il futuro della generazione italiana a partire dall’incontro e dal dialogo”.
Secondo il ricercatore Paolo Boccagni, tra i curatori del Rapporto annuale sull’immigrazione, “bisogna considerare anche il diritto all’uguaglianza – spiega – che non significa assimilazione, ma avere le stesse opportunità di realizzarsi nella scuola e nel lavoro al pari dei coetanei figli di italiani e non essere penalizzati per il colore pelle, la religione, il cognome che si porta”.
A pesare è la crisi economica. I dati ci dicono che le famiglie di immigrati hanno livelli di povertà 3 -4 volte più alte delle famiglie italiane e tra le famiglie di immigrati il 50% dei minori vive in condizioni di povertà
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