Claudia ha perso il marito, carabiniere, ucciso da un giovane di 20 anni. Irene è la madre di quel ragazzo. Due donne, due vite costrette a incrociarsi tragicamente, ma dal punto, dolorosissimo, di contatto invece che scaturire odio e rassegnazione, si apre uno spazio in cui dal cuore ferito a morte di una moglie che resterà vedova e dal dolore di una madre che diventerà "occhi e orecchie" del figlio mentre è in carcere a scontare la sua pena si genera la forza dell'incontro, il coraggio del perdono e la rinascita a nuova vita per entrambe.
Claudia Francardi e Irene Sisi sono state protagoniste di un'intensa testimonianza nel corso dell'incontro svoltosi martedì 6 settembre nell'aula magna del Collegio Arcivescovile a Trento all'interno della due giorni di aggiornamento dedicata alle Opere di misericordia prevista per quasi trecento insegnanti, in particolare di religione cattolica (IRC), promosso da Iprase e dall'Ufficio Scuola dell'Arcidiocesi, con il sostegno di FBK. E proprio di misericordia e di riconciliazione parla la loro storia intessuta di tre opere in particolare: perdonare le offese, visitare i carcerati, consolare gli afflitti.
Il 25 aprile 2011, al termine di una nottata trascorsa in un rave party a Sorano, Matteo Gorelli viene fermato ad un posto di blocco dall'appuntato scelto Antonio Santarelli e dal collega Domenico Marino: risultato positivo all'alcol-test, gli viene comminata una multa e il ritiro della patente, appena conseguita. Matteo colpisce Antonio alla testa con un palo e da quel momento, la vita cambia per sempre per due famiglie. Il carabiniere non riprenderà mai conoscenza e morirà dopo un anno di coma, il giovane viene arrestato con l'accusa di duplice tentato omicidio e poi sarà condannato a 20 anni di reclusione. "Da mamma di un ragazzo di 20 anni sono diventata madre di un assassino e mi sono chiesta quali errori avevo commesso con mio figlio", racconta Irene, mentre Claudia ricorda di aver "vomitato addosso a Matteo tutto il dolore e la rabbia durante un'udienza del processo, vedendolo poi piangere disperato". Tuttavia, la mano tesa di Irene spezza l'abisso di una distanza che sembra incolmabile, e alla sua vicinanza, espressa in una lettera e dettata dal desiderio di chiedere perdono, risponde la mano di Claudia che la raccoglie, non erigendo muri giudicanti. La vita di prima non c'è più, ma riprende a fluire, spostandosi dal letto dell'ospedale e dalla cella – i luoghi del dolore che rischia di incatenare ad un eterno presente -, all'interiorità, dove alberga la forza di andare oltre, oltre la perdita subita e oltre gli sbagli di una donna diventata madre troppo presto, rimasta sola a crescere i due figli, Matteo e Chiara.
Al primo incontro, reso possibile dalla mediazione di don Enzo Capitani che seguiva Matteo in carcere, ne seguono altri: Irene va a trovare Antonio in ospedale, gli sguardi di Claudia, ora compassionevoli, e quelli di Matteo, pentito, si "parlano" nell'aula del tribunale: "Dopo la condanna, intorno a me sentivo dire le persone ˈgiustizia è fattaˈ, ma ho provato dolore per Matteo: se nessuno credeva nella sua possibilità di riparare a quanto fatto, allora Antonio sarebbe morto per niente".
"Da quel momento ho cercato di capire i miei errori – prosegue Irene -, e ho promesso a mio figlio che sarei sempre stata al suo fianco. Gli anni da trascorrere in carcere non fanno paura: c'è bisogno di tempo per pensare e capire cosa vuole fare. Ora ha 24 anni e tra 4 mesi si laurea in Scienze dell'educazione (Matteo si è iscritto all’università nella comunità di don Antonio Mazzi, ndr). Ha sbagliato, ma non bisogna identificarlo con il reato commesso, è possibile cambiare".
La vicenda di Irene e Claudia non solo ha generato riconciliazione, ma ha portato alla luce energie vitali, un'amicizia autentica e nuovo impegno. "Non abbiamo dimenticato – spiega Claudia -, l'amore per Antonio è ancora vivo, e per Irene è un amico, ma ci siamo reinventate". "Eravamo nude in mezzo alla tempesta, sole ad affrontare quel dolore – continua Irene -: nessuno poteva capirci. Abbiamo trovato ascolto l'una nell'altra, ci siamo sostenute a vicenda: questa esperienza ci ha permesso di conoscerci nel profondo e un giorno abbiamo smesso di essere la vedova di Antonio e la madre di Matteo, siamo diventate amiche mettendoci a nudo senza pudore".
Un esito impensabile, ma, indipendentemente dal percorso di fede che le accomuna, tutti possono vivere la giustizia nel quotidiano: "Dobbiamo partire da noi stessi, senza scaricare sempre sugli altri responsabilità e colpe, ammettendo i nostri sbagli", spiega Claudia ricordando il commovente incontro con Matteo. "Il perdono deve andare al di là del gesto – le fa eco Irene -: solo l'incontro tra vittima e reo realizza concretamente la giustizia riparativa". Ed è proprio questo l'obiettivo di "Amicainoeabele", l'associazione fondata nel 2014 dalle due donne che si occupa di percorsi di riconciliazione tra vittima e reo: "Se si vuole, si trova sempre il modo di dialogare, il nostro desiderio è far capire che è possibile aiutarsi, tendendo la mano e dando all'altro la possibilità di prenderla. Per quanto riguarda il tema della detenzione, a nessuno interessa sapere chi sono gli abitanti del ˈpianeta carcereˈ o capire come usciranno e come potranno rientrare in società dopo molti anni: siamo abituati a pensare solo alla giustizia punitiva, retributiva, non al recupero della persona e alla sua dignità".
Da due anni, Claudia e Irene girano l'Italia, consapevoli che la loro esperienza può essere utile ad altre persone vittime di violenza, subita ed esercitata, ma non vogliono essere considerate donne straordinarie: "Vorrei che le persone provassero a capire che la giustizia si può praticare a partire da piccoli gesti quotidiani", conclude Irene.
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