Lo spunto
Il disegno di legge (governativo) chiamato “della sicurezza”, approvato dalla Camera è un provvedimento legislativo molto grave che si colloca, ma ancor più aggrava, sulla linea dei «decreti sicurezza» dell’allora ministro dell’interno Salvini e poi dei decreti «rave», «Cutro» e «Caivano» dell’attuale governo. Non solo i partiti politici di opposizione e i principali sindacati, l’Arci, l’Anpi e la Caritas, ma anche molti osservatori giornalistici (tra questi Roberto Saviano, il quotidiano “ Avvenire” ed altri), giuristi e magistrati hanno gettato l’allarme su misure finalizzate quasi esclusivamente alla repressione del dissenso, dei movimenti di contestazione in specie ambientalisti ed ecologisti, anche delle manifestazioni improntate alla nonviolenza e alla resistenza passiva, al punto che alcune delle norme sono state emblematicamente stigmatizzate come «anti-Gandhi». Il portavoce italiano di Amnesty International, Riccardo Noury, ha definito questo provvedimento «un modello di ‘cattivismo’ che intacca profondamente, tra gli altri, il diritto di protesta pacifica inasprendo criminalizzazioni o introducendone di nuove ». In generale, ha osservato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, «il ddl sicurezza contiene un attacco al diritto di protesta come mai accaduto nella storia repubblicana, portando all’introduzione di una serie di nuovi reati con pene draconiane, anche laddove le proteste siano pacifiche».
Marco Boato (il T quotidiano, 15 ottobre 2024)
Questi spunti sul disegno di legge “sicurezza” si presentano come una sintesi, tracciata da Marco Boato su “il T quotidiano” di martedì 15 ottobre, che riguarda tutti i cittadini, perché è vero che nel Paese c’è bisogno di sicurezza, ma non con l’intimidazione verso chi protesta pacificamente, a viso aperto, contro atti amministrativi e proposte governative che vengono ritenute distruttive di ambienti o di opportunità sociali.
Il dissenso non violento (come i “sit in” o la disobbedienza civile, legittimata anche da pensatori e testimoni laici e religiosi, da Gandhi a don Milani, da San Francesco, che si ribella al padre gettando le sue vesti in piazza, a Bertrand Russel che manifesta contro l’atomica…) è sempre stato gestito, mediato in un confronto dalle autorità civili, non represso con l’intimidazione che, a sua volta, induce spesso a reazioni, queste sì violente. Se una manifestazione non violenta a sostegno dei diritti del lavoro o contro interventi ambientali distruttivi su un territorio, viene repressa o criminalizzata con fermi preventivi di persone o con la sistematica individuazione dei partecipanti, tramite telecamere, sicuramente qualcuno penserà ad altre strade da seguire. Per dare un giudizio sul decreto ”sicurezza” che dalla Camera passa al Senato, bisogna attendere la stesura definitiva, ma occorre fare in modo che essa non risulti sbilanciata verso la repressione piuttosto che attenta alla prevenzione. Le manifestazioni pubbliche, infatti, costituiscono messaggi politici che proprio alle autorità (ed ai partiti) vengono rivolti e di cui è bene che questi ultimi tengano conto per orientare la loro azione. Esprimono il “clima” di un’opinione pubblica largamente condivisa che non può essere esorcizzato, ma deve essere compreso e trattato come la febbre in un organismo. Un segnale di malessere che da soli non si può superare.
Su questi temi proprio il Trentino ha molte cose da dire, avendo affrontato direttamente, negli anni Sessanta e Settanta, stagioni e situazioni difficili, con il terrorismo in Alto Adige e poi la “contestazione” a Trento: ci furono manifestazioni nelle quali non mancavano le provocazioni (anche reciproche), con imponenti schieramenti di manifestanti e forza pubblica, ma le persone però sapevano controllare e isolare i provocatori. Anche il servizio d’ordine di chi organizzava i cortei e i “sit in” (quando si è seduti in terra non si provoca violenza) sapeva essere vigile e attento, mentre la classe politica sapeva fare la sua parte. Ad esempio frapponendosi ai manimovimento festanti, come fece Bruno Kessler, scendendo in piazza dal suo ufficio per confrontarsi direttamente con la folla urlante. O come sapeva fare il vicequestore Salvatore La Rocca quando, con la sua pacata e saggia autorevolezza, riusciva a disinnescare le tensioni che si andavano accumulando senza bisogno di squilli di tromba.
Da questo punto di vista Marco Boato, al di là del suo iter parlamentare alla Camera e al Senato, ha tutte le credenziali per portare la sua voce nel confronto sulla “sicurezza”. Egli è stato, infatti, uno dei leader indiscussi del studentesco, ma ha sempre saputo svolgere un’azione di freno e controllo su eventuali devianze violente. Sapeva “frapporsi” fra manifestanti e schieramenti dell’ordine, usando la sua eloquenza e la sua passione civile per affermare la supremazia della “parola”, della ragione, del convincimento sull’azione emotiva. Anche in questa attuale fase storica dell’Italia e del mondo, mentre troppe sono le scorciatoie perdenti e distruttive di armi, guerre e volgarità nel linguaggio, occorre non perdere di vista il senso delle cose. Perché è vero che c’è bisogno di sentirsi più sicuri, nelle strade e al pronto soccorso, sugli autobus, sui treni e nei rapporti fra generi, ma la sicurezza ricercata non si ottiene con la repressione del dissenso, bensì attraverso un controllo più attento del territorio, rendendo sicuri luoghi e momenti di vita.
Vanno presidiate, senza incertezza, le stazioni e gli ambulatori, si rimettano i “controllori” sugli autobus urbani (un tempo erano dissuasori di comportamenti aggressivi) e anche nelle carrozze dei nostri treni (non bastano i pulsanti d’allarme e le telecamere), si ripristini il controllo di vicinato, a proposito del quale ricordiamo con una certa nostalgia la presenza attenta dei portalettere, i “postini”, che avevano una funzione insostituibile di presidio del territorio. Perché dobbiamo tenere presente che l’inasprimento delle pene e la moltiplicazione delle tecnologie non sono sufficienti per garantire una convivenza serena.
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