Lo spunto
A denunciare pubblicamente il gesto vandalico sulla roccia dei dinosauri è stato Moreno Pesce, alpinista veneziano, che da anni si spende per rendere la montagna un luogo totalmente accessibile e fruibile da più persone possibili, incluse quelle con disabilità. «Un atto grave — lo ha definito Pesce — frutto di un turismo indisciplinato e maleducato, che nulla ha a che fare con il rispetto del patrimonio culturale e della montagna». Una dura condanna è arrivata anche dal presidente della Regione Veneto, Luca Zaia. «Ognuno è libero di esprimere le proprie idee ma ci sono i modi e i canali corretti per farlo; deturpare un tesoro comune, riconosciuto patrimonio dell’umanità, certamente non lo è ed è anche un pessimo esempio», ha detto, sottolineando come la difesa del territorio montano dall’eccesso di presenze turistiche fatta in questo modo non sia certo una dimostrazione di rispetto o di amore verso le Terre Alte. Il sindaco di Auronzo di Cadore, Dario Vecellio Galeno, non crede affatto che si tratti di una protesta contro i turisti. «Mi pare si tratti del gesto di un “imbecille” — dice — non certo opera di un cittadino della nostra comunità, che vive proprio di turismo». Un settore in crescita, soprattutto per quanto riguarda l’arrivo di stranieri. «Ben vengano — aggiunge il sindaco—,il problema non sono i numeri ma la necessità di ampliare i mesi di apertura delle strutture ricettive di Misurina, Auronzo e dei rifugi delle Tre Cime e lavorare a una migliore gestione dei parcheggi e dei tempi di attesa per evitare le code».
Corriere della Sera, 5 ottobre 2024
Va condannata, ma non può stupire, la scritta tracciata sulle rocce delle Cime di Lavaredo, simbolo delle Dolomiti e teatro di imprese alpinistiche fra la più ardite ma ora assediate dal traffico motorizzato, che intima ai turisti di tornarsene a casa, usando lo slogan diventato di uso mondiale (“go home”) per esprimere la rivolta dei popoli di minoranza contro i colonialismi politici, economici, tecnologici. Non può sorprendere, perché la reazione contro un turismo che in troppe località negli ultimi anni ha subito una crescita fuori misura, non solo e non tanto per quantità, ma per modi di viverlo ed esprimerlo, traducendosi in diffuse banalità e volgarità, non serpeggia solo negli impazienti, ma si sta radicando sempre più fra i veri appassionati dei viaggi, delle scoperte, delle esperienze vere (in montagna e nelle città, nei paesaggi come nelle malghe) in chi crea tendenze ed opinioni, ed anche fra molte popolazioni che sentono “questo” turismo non tanto come una risorsa economica, ma soprattutto come uno stravolgimento dei modi di vita alpini, come una omologazione delle alternative ed opportunità che esse presentano, come un furto di risorse esistenziali. Un’oppressione e quasi un tradimento – verrebbe da dire -, perché con questa invasione non solo massificata, ma banalizzata, vengono cancellate le stesse ragioni per le quali una località, un territorio, un paesaggio si sono affermati ed hanno esercitato un richiamo sui visitatori, richiamando presenze che vanno alla ricerca di alternative esistenziali (o emozionali) diverse dalle realtà urbane della loro quotidianità, spesso faticosa o grigia.
Certo, scrivere sulle rocce è cosa che non si deve fare, così come scrivere sui muri. Ma le scritte di protesta anche così impropriamente manifestate non devono mai essere trascurate o sottovalutate dai responsabili della politica e delle scelte, perché esprimono sensazioni di malessere diffuso che salgono da lontano, come la punta di un iceberg. Solo un grido emerge: la massa, l’insoddisfazione diffusa, in questo caso, resta nel profondo, ma prima o poi emergerà anch’essa. E, certo, non bisogna scrivere sulle rocce, ma non va bene neppure stravolgere consumisticamente i rifugi e trasformare le malghe in “resort” a verande vetrate (si veda ad esempio “L’Adige” del 6 ottobre, pagina 19 ).
Certo che poi chi va in montagna non cerca la malga, ma passa oltre. Rendendosi peraltro conto che la quantità muta sempre anche la qualità dell’offerta, bisogna lasciare la montagna ai suoi ritmi ed al suo stile. Essa non teme i visitatori, ognuno vi trova il suo “sesto grado”, il limite e la misura giusta per frequentarla. Basta avvicinarla e percorrerla con mezzi naturali, “a piedi”, basta ricercarvi i suoi valori essenziali (la natura, il silenzio, il rispetto reciproco, in molti casi la spiritualità). Studi specifici confermano che una strada nel bosco, o fra mughi e ghiaioni, anche verso cime famose, percorsa a piedi, accoglie e “sopporta” moltissimi escursionisti visitatori, imponendo un filtro naturale secondo le attitudini dei percorritori. Chi cammina poco si ferma prima, ma trova il suo spazio, la sua magia alpina lì dove sosta per il pic-nic. Chi prosegue oltre può immergersi invece nel silenzio delle cime. Ma se la meta è raggiungibile da mezzi meccanici, ogni località diventa un parcheggio, ed è vano cercare di “ordinarlo”.
Sembra di trovarsi sempre in un immenso “garage”. Di qui delusione e rifiuto. La bellezza naturale non è fatta per essere “meccanizzata”, con la natura espropriata dall’artificialità.
In questa prospettiva vanno calibrati anche gli “eventi” che le agenzie di promozione offrono (anche con soldi pubblici) per richiamare folle. Un conto è proporre esperienze uniche, di affinamento culturale e spirituale, come il concerto di Vecchioni (vedi ultimo editoriale di Vita Trentina), altro conto trasformare la montagna in un set televisivo riproponendo in quota spettacoli e show, o rompendo il silenzio dei monti con effetti da stadio e circo mediatico. In molti casi sembrano più gli “eventi” che le persone a suscitare uno sgradevole “overtourism”, ed è proprio questa sgradevolezza che la protesta, scritta e latente, vorrebbe restassero a casa.
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