Per definirla, usiamo tranquillamente il termine inglese, “privacy”, senza nemmeno cercare un sinonimo in lingua italiana; per avere garanzie della sua osservanza, ci sobbarchiamo moduli e circolari, pronti a mettere la firma decine di volte senza mai obiettare; in suo nome abbiamo accettato limitazioni e ci siamo imposti delle autocensure: nemmeno alla recita natalizia alla scuola materna o alla festa di fine anno scolastico si possono fare foto ai bambini per la gioia dei nonni.
“Rispetto della privacy”, viene ricordato. E tutti – giustamente e doverosamente – ci adeguiamo.
C’è però un paradosso in questa spasmodica ricerca della massima garanzia alla riservatezza. Proprio noi, così attenti alla nostra privacy, sui social siamo però i primi a mettere in piazza tutte le nostre cose, a rendere pubblici i nostri gusti e le nostre idee, a raccontare ogni cosa delle nostre ferie (comprese le immagini dei bambini), a mettere in evidenza la rete delle nostre amicizie, i nostri interessi, le nostre passioni, le nostre frequentazioni, le simpatie e le antipatie. Chiediamo – comprensibilmente – al mondo di non guardare in casa nostra e poi facciamo in modo che le pareti della nostra abitazione siano assolutamente trasparenti.
Come quelle case di vetro, con la luce accesa, dove tutto si vede meglio dall’esterno che non dall’interno. Le nuove tecnologie hanno la capacità di abbattere ogni recinto: le parole di un nostro messaggio (anche se inviato in via confidenziale e riservato) possono essere inoltrate ad un numero illimitato di persone, anche a chi non dovrebbe leggerle, anche a coloro che non ne possono intendere il contesto o la ragione di quelle parole.
Peggio ancora, i messaggi vocali, quelli con la nostra voce, che possono diventare di dominio pubblico grazie ad un semplice “inoltro”.
Le telefonate vengono spesso fatte in “viva voce”: per strada, al bar, persino sugli autobus o in treno. Oltre a molestare i vicini (ormai l’educazione sembra essere una variabile non contemplata), i dialoghi possono venir facilmente catturati da chi non c’entra nulla, ma anche da chi ha interesse a conservare ogni cosa. Al pari delle fotografie, dei video, delle riprese con il cellulare o – di nascosto – con semplici occhiali da sole che hanno incorporata una telecamerina.
Ciò che scriviamo sui social rimane a disposizione di tutti.
Anche ciò che cancelliamo può essere conservato se qualcuno ha ritenuto opportuno fare uno “screenshot”, una fotografia di ciò che appare sullo schermo dello smartphone.
La vicenda di Gennaro Sangiuliano, il ministro della cultura costretto alle dimissioni, sotto questo aspetto (al netto, dunque, delle altre valutazioni politiche, etiche e morali) appare come emblematica. Quasi che un ministro (peraltro giornalista e già direttore di uno dei telegiornali più importanti della televisione italiana) fosse inconsapevole che oggi ogni uscita pubblica o privata di un rappresentante delle istituzioni è, o può essere tracciata, con diversi mezzi; i suoi accompagnatori individuati; le telefonate registrate; i luoghi ad accesso limitato filmati con mini-telecamere; il tutto archiviato digitalmente e rimesso sulla Rete in tempo reale a beneficio di qualsiasi utente.
La domanda, nel caso Sangiuliano, non è più, come sarebbe stato una volta, se sia giusto o sbagliato osservare un ministro dal buco della serratura; ci si chiede piuttosto se l’ex ministro sia davvero così ingenuo o se il ruolo che gli era stato assegnato lo ha portato a sentirsi intoccabile, quel delirio di onnipotenza che da sempre è il maggior nemico di chi arriva nei posti di potere.
Fatta salva la trasparenza che si richiede a chi esercita una funzione pubblica e un mandato politico, l’uso degli strumenti delle nuove tecnologie propone però una questione che riguarda ogni cittadino: come garantire davvero la riservatezza a ciascuno di noi a casa, sul lavoro, negli ambienti pubblici e persino in quelli privati. Non sono sufficienti le norme e non servono nemmeno i moduli da sottoscrivere: dobbiamo sapere che la tutela della privacy è compito che spetta innanzitutto a ciascuno di noi – tornando al vecchio riferimento della prudenza – perché gli strumenti digitali sono una grande opportunità, ma c’è anche l’altra faccia della medaglia: possono mettere in piazza le nostre cose.
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