È un momento rivelatore per la situazione in cui versa la UE: da un lato c’è il rapporto di Mario Draghi sulla competitività, che tante resistenze ha suscitato, dall’altro l’impasse in cui sembra finire Ursula von der Leyen nella costruzione della sua Commissione. Sono due eventi che sarebbe pericoloso sottovalutare.
L’ex presidente della BCE ha presentato un piano molto corposo (400 pagine) e altrettanto ambizioso in cui prende di petto un problema condiviso da quasi tutti: l’Europa sta perdendo capacità di leadership nel mercato globale e questa non sarà soltanto una questione economica, ma di rivoluzione degli equilibri geopolitici di potere. Il grande progresso tecnologico è in mano a USA e Cina, con l’India che si affaccia a condividere le opportunità enormi che esso offre, mentre il nostro vecchio continente perde capacità e inventiva.
Sarebbe necessario ripristinare quanto meno un certo equilibrio, ma l’Europa può provarci solo se riesce ad agire come un soggetto unitario. Ciò richiede non solo grande volontà di integrazione politica (Draghi è ben consapevole che non è che ce ne sia molta), ma anche grandi capitali da investire.
Su questo punto è, come suol dirsi, cascato l’asino. La cifra di investimento annuo stimata necessaria è di 800 miliardi di euro, che non si sa dove trovare. L’ex banchiere europeo dice facendo debito comune, ma i governi nazionali sono poco disposti a lanciarsi in una avventura del genere, che richiederebbe bilanci spartani e controlli reciproci, tutte cose che piacciono molto poco alle cancellerie preoccupate di una opinione pubblica restia alla austerity, morale prima ancora che economica, necessaria.
Di qui una ridda di “non possumus” arrivati dai più diversi interlocutori, inclusa la presidente von der Leyen che appena con un po’ di diplomazia ha rimandato le proposte di Draghi nel limbo dei grandi progetti auspicabili, ma da prendere più che con le molle. Ovviamente chi ha scritto il rapporto sapeva benissimo di muoversi in un contesto ostile, ma, a nostro modesto parere, ha scelto di scrivere “per la storia”, cioè di mettere agli atti che c’era la consapevolezza del tornante decisivo che si doveva affrontare e che poi la responsabilità di non farne nulla va messa in capo a classi dirigenti senza visione e con scarso coraggio.
Il tema, e veniamo al secondo punto che abbiamo sollevato in apertura, è che la UE in questo momento non riesce a trovare un equilibrio di governo. Lo indica chiaramente la vicenda della nomina del commissario italiano Raffaele Fitto che incontra l’opposizione di una sinistra del parlamento europeo che non riesce ad esprimere una cultura di governo (per altro la destra è del tutto eguale). Von der Leyen stava cercando di gestire la situazione su due binari: da un lato affidandosi ad una maggioranza “politica” fatta dei partiti genericamente di sinistra, ma che include anche il PPE che tale non è; dal lato opposto tenendo conto che poi per gestire le politiche avrebbe avuto bisogno di una certa solidarietà con i governi nazionali più importanti, fra cui c’è indubbiamente l’Italia (tanto più adesso con la pesante crisi del “motore” francotedesco). Di qui la decisione di dare una buona posizione al commissario indicato dal nostro Paese, anche se non appartiene ai partiti che formano la sua maggioranza politica.
Sarebbe una politica ragionevole, considerando che Raffaele Fitto non è un pasdaran della destra e che ha dato prova di realismo nei suoi rapporti con Bruxelles. Però è scattato nella componente di sinistra della coalizione che ha votato per la von der Leyen il mantra del fare muro contro la destra, fra il resto senza tenere in considerazione che, in un’ottica realistica, sarebbe auspicabile aprire un confronto aperto senza pregiudiziali con quelle componenti della destra che possono essere sottratte alle tentazioni del populismo estremista (che ha avuto e sta avendo un consenso da non sottovalutare).
Questo può portare alla messa in crisi, se non al fallimento della costruzione di un equilibrio di programmazione politica ed economica, di cui la UE ha tanto bisogno, ma non si può dimenticare che quanto a realismo politico non è che i deputati di Bruxelles eccellano.
Vedremo come andrà a finire, ma sarebbe da augurarsi che almeno la tradizione “governativa” della sinistra riformista italiana e dunque anche di una parte non piccola del PD spingesse i parlamentari di quella componente a far ragionare i pasdaran loro alleati. Sarebbe un grande servizio al nostro Paese e all’Europa, perché entrambi non hanno bisogno di contese pseudo ideologiche, ma di una buona politica che sappia affrontare il tornante storico che abbiamo davanti.
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