Nella pagine del settimanale diocesano la vicenda umana dei profughi albanesi giunti a Strigno
“Questa gente ha perso il senso del futuro. E nel paese è il caos. La situazione economica è drammatica. La gente scappa perché ha paura, è incerta in ansia per il domani”. Un leader del Partito democratico, prima forza di opposizione in Albania, spiegava con queste parole la fuga della sua gente, ai primi di marzo del 1991: 20 mila persone, tra cui molte donne e bambini, arrivate nei porti di Brindisi e di Otranto. In Italia trovarono “la latitanza del governo”, ma anche un volontariato pronto ad agire (ma bloccato dalla burocrazia), come scrisse Vita Trentina nel numero del 17 marzo 1991: “E’ come se questo esodo di disperazione avesse incontrato due Italie: quella dell”indifferenza elevata a sistema, del cinismo di fronte all’uomo in situazione di bisogno’, per usare le parole dell’Osservatore Romano; e quella che è esplosa nella generosità della gente semplice, che ha aperto le proprie case…”.
Vita Trentina tornò in modo più approfondito sulla vicenda sul numero successivo, pubblicato con la data del 24 marzo 1991. Nel reportage di Diego Andreatta accompagnato dalle immagini di Gianni Zotta si racconta la vicenda umana dei 365 profughi albanesi giunti a Strigno in Valsugana “nella grigia mattina del 15 marzo, un venerdì di Quaresima, ultima tappa della loro Via Crucis italiana”. La caserma degli alpini “Giuseppe Degol” di Strigno vi è descritta come “l’ultimo approdo” di una lunga “odissea della speranza” cominciata nei porti albanesi.
Nella caserma, inutilizzata ormai da più di 15 anni e riadattata nel giro di un paio di giorni dagli alpini del Battaglione Feltre della Brigata Alpina Cadore, furono accolte 365 persone; di queste, 47 erano le donne, 25 i bambini “e due neonati”. La Protezione Civile trentina mobilitò la Caritas Diocesana e la Croce Rossa, mentre Polizia e Carabinieri provvedevano alla sicurezza e all’identificazione dei migranti, in gran parte privi di documenti di riconoscimento.
Nelle testimonianze raccolte da Vita Trentina, colpisce la descrizione di un’Albania dove regnava la paura, dove la vita era al limite della sopravvivenza, dove “il governo di stampo staliniano” al potere negava ogni libertà, compresa la libertà religiosa: “Chiese e moschee erano state chiuse. Ma i nostri genitori hanno conservato e coltivato la nostra fede. Tenevano nascoste dietro gli armadi le immagini religiose, si pregava in segreto. Molti cristiani sono stati perseguitati, alcuni preti condannati al carcere e ai lavori forzati”. Privazioni tali da giustificare la scelta di imbarcarsi verso l’ignoto, affrontando “un esodo disumano e le perplessità per un futuro dai contorni ancora imprecisi”.
Fu l’avvio di un’avventura che, a distanza di poco più di vent’anni, è sfociata, sottolinea oggi Leonora Zefi dell'associazione Teuta, “in una riuscita integrazione sociale, lavorativa e culturale degli albanesi in Trentino, nonostante i forti pregiudizi iniziali che non hanno reso facile il loro inserimento”.
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