“Rispondiamo rafforzando la cooperazione internazionale”

Rivedere gli accordi di Schengen, chiudere le frontiere? “Un’autentica sciocchezza”

“Lo scopo è quello di creare uno stato di tensione, che porti ad un conflitto aperto con tutto il mondo islamico. Ma alle bombe dei terroristi non si risponde con le bombe dell’antiterrorismo. Bisogna evitare di criminalizzare la religione e puntare piuttosto sul rafforzamento della cooperazione internazionale". Il prof. Giuseppe Nesi, preside di Giurisprudenza all’Università di Trento, giurista esperto di diritto internazionale (è stato anche, nel 2001, consulente legale della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage del Cermis del 3 febbraio 1998), contrasto al terrorismo e diritti umani, offre la sua analisi sui sanguinosi avvenimenti in Francia ai microfoni di radio Trentino inBlu. E allarga la sua lettura anche agli altri episodi di terrorismo e conflitto internazionale, come il massacro di migliaia di persone in Nigeria, lo stesso giorno degli attentati a Parigi.

“Ai tentativi criminali di terrorizzare e destabilizzare per provocare la reazione degli Stati l’unica risposta possibile è quella dell’unità. Siamo di fronte a fenomeni molto più ramificati rispetto al passato, cui è difficile dare una lettura omogenea”, osserva.

Prof. Nesi, quanto gioca la spinta anti-occidentale iniziata nella prima Guerra del Golfo (1990-1991)?

“Non si possono fare parallelismi. Lì eravamo di fronte all'invasione di uno stato, il Kuwait, da parte di un altro stato, l'Iraq”.

Lo spartiacque è l’11 settembre 2001, con l'attacco alle Torri Gemelle a New York e sul suolo americano, e la successiva invasione dell’Iraq (2003), che ne ha fatto, come osserva il giornalista John Pilger, un covo dello jihadismo?

“I fatti dell’11 settembre avevano una precisa matrice con la rivendicazione da parte di Al-Qaida. Gli attacchi di Parigi vanno ricollegati a un clima di odio che non ha necessariamente di mira l’Occidente in quanto tale. Non si può fare il parallelo con l’11 settembre”.

Dove vanno cercate le cause?

“Le cause sono molteplici. Come si vede in Siria e in Iraq, determinati gruppi organizzati trovano nella sublimazione della violenza nel corso di un conflitto armato la propria ragione di esistere”.

Gruppi che proprio in quell'area geografica hanno dato vita all’odierno “Stato Islamico in Iraq e Siria” (Isis).

“Anche in relazione all’Isis oggi ci troviamo di fronte ad una lotta tra fazioni più o meno religiose dell’Islam, piuttosto che ad una lotta anti-occidentale”.

Ma le loro azioni violente finiscono per avere come bersaglio anche l’Occidente.

“Sì, perché questi gruppi conoscono la sensibilità dell’Occidente: fa molto più discutere la decapitazione di un ostaggio occidentale o i fatti di Parigi piuttosto che le migliaia di morti che registriamo in altri contesti meno sotto i riflettori della pubblica opinione, come i fatti gravissimi in Nigeria dove vengono fatte esplodere bambine”.

Alle bombe dei terroristi si risponde con le bombe dell’antiterrorismo?

“Le organizzazioni internazionali, l’Ue, i nostri Paesi che fanno capo alle Nazioni Unite hanno gli strumenti di controllo, monitoraggio e contrasto al crimine. Occorre agire anche ricorrendo all’uso di strumenti repressivi, ma bisogna evitare assolutamente di parlare di guerra al terrorismo: perché altrimenti finiamo per legittimare le azioni violenti messe in atto con intenti terroristici. Spesso si tratta di attività criminali che vanno combattute come tali. La risposta è rafforzare la cooperazione internazionale, l’attività di intelligence, la condivisione dei dati che servono per contrastare questi fenomeni”.

Alcuni analisti vedono nella crisi siriana l’origine della nascita dell’Isis.

“E' semplicistico dire che l'Isis si è sviluppato perché si sono indeboliti paesi come Siria e Iraq. Il vero problema è quello di attuare forme serie di cooperazione internazionale, anche sul piano militare se necessario, che riducano a zero la possibilità che si crei un nuovo stato con la finalità di destabilizzare l’ordine che caratterizza il rapporto fra stati”.

Come possiamo isolare gli stati collusi col terrorismo, che lo finanziano e lo sostengono ad esempio con il rifornimento delle armi?

“Rispetto agli anni Ottanta e Novanta sono stati fatti passi da gigante. E' stata adottata la convenzione delle Nazioni Unite contro il finanziamento del terrorismo internazionale, ratificata da gran parte degli stati dopo l'11 settembre. Molte norme internazionali di cooperazione già esistono, basterebbe applicarle seriamente”.

A chi parla di guerre di religione, cosa dire?

“Parlare di guerra contro una religione è un grave errore. Molte delle vittime a Parigi e in Nigeria erano persone credenti. Dobbiamo evitare di criminalizzare le religioni”.

Chi ha colpito a Parigi era noto ai servizi e alle forze di polizia.

“Non c’è stata condivisione di informazioni rilevanti su presunti terroristi o persone che per ragioni fondate costituivano una potenziale minaccia. Nessuno vuole uno stato di polizia, nel quale vengono sacrificate le libertà individuali, ma è inammissibile e inquietante che sistemi di sicurezza di paesi alleati non si parlino. Vanno rafforzati, ripeto, gli strumenti di collaborazione. In questo modo si sono già evitati attentati”.

Alcune forze politiche propongono di rivedere gli accordi di Schengen, di chiudere le frontiere.

“E’ un’autentica sciocchezza. Vanno invece rafforzati i controlli per chi entra nell’area Schengen. Gli attentatori di Parigi non venivano dall’estero, erano cittadini francesi. Il tentativo di parlare alla pancia della gente forse paga in termini elettorali, ma allontana dalla soluzione dei problemi”.

(a cura di)

vitaTrentina

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