Autonomia, anche oggi serve il coraggio di Alcide De Gasperi

La Lectio degasperiana di mons. Ivan Maffeis a Pieve Tesino, Foto © Gianni Zotta

Basta la parola, “autonomia”, per suscitare inquietudine. Oggi come in passato. Eppure, l’idea di autonomia (con quella di sussidiarietà) è parte qualificante del patrimonio che il cattolicesimo ha portato in dote al processo di formazione (teorico e pratico) dello Stato italiano e, in seguito, delle istituzioni europee e globali. Alcide De Gasperi, di cui si sono ricordati da poco i 70 anni dalla scomparsa, intervenne sul tema in più occasioni. Lo fece da “autonomista convinto”, quando prese la parola in sede di Assemblea costituente il 29 gennaio del 1948. Si trattava nientemeno che dell’approvazione dello Statuto speciale della regione Trentino Alto Adige.

De Gasperi, per la sua storia personale, per le sue attività e per i suoi studi, conosceva la realtà altoatesina e le istituzioni autonomistiche nelle loro varie possibili forme. Nato e cresciuto nel Tirolo austriaco, deputato a Innsbruck e Vienna prima che a Roma, sapeva bene che cosa vuol dire riconoscere o negare l’autonomia. E comprendeva come i diversi livelli di governo hanno il loro ruolo e il loro senso al di là della presenza o meno di minoranze linguistiche sui territori. La Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali. Le parole dello statista di Pieve Tesino ai Padri costituenti, pronunciate nel 1948, suonano di una certa attualità, se messe in relazioni con i presenti dibattiti sull’autonomia differenziata. “Differenziata”, peraltro, anche per la qualità dei dibattiti.

“Io che sono pure autonomista convinto”, disse a un certo punto, “e che ho patrocinato la tendenza autonomista, permettete che vi dica che le autonomie si salveranno, matureranno, resisteranno, solo ad una condizione: che dimostrino di essere migliori della burocrazia statale, migliori del sistema accentrato statale, migliori soprattutto per quanto riguarda le spese. Non facciano la concorrenza allo Stato per non spendere molto, ma facciano in modo di creare una amministrazione più forte e che costi meno. Solo così le autonomie si salveranno, ovunque, perché se un’autonomia dovesse sussistere a spese dello Stato, questa autonomia sarà apparente per qualche tempo e non durerà per un lungo periodo”.

De Gasperi era orientato a considerare province e regioni “corpi essenzialmente amministrativi” (“anche se vi sarà il libero giuoco della maggioranza e della minoranza politica”). Che in essi “non entri troppo la politica”, auspicava. Politica sì, ma “negli ambienti regionali soprattutto si faccia della buona amministrazione”. Aggiunse una frase che oggi, a 76 anni e mezzo di distanza, avrebbe dovuto avere già una o più risposte: “La storia dirà se abbiamo, con questo nostro atto di fede nelle autonomie, avuto ragione o torto”. Il focus va posto sulla “buona amministrazione” e la questione da verificare è se essa ci sia stata o meno, dove, perché sì e perché no. Un esercizio un po’ faticoso al quale si preferisce la propaganda semplificatoria? De Gasperi, quel giorno, continuò e sembra di sentirlo ora: “Io non credo a quello che si è stampato su qualche giornale, anche oggi, che cioè noi stiamo prestandoci a creare in Italia una serie di repubblichette che disgregherebbero la Repubblica italiana. Non lo credo, come non crederei che domani i Comuni, essendo attivi e non essendo come oggi purtroppo a carico dello Stato per buona parte, sviluppando un’attività migliore, secondo gli statuti comunali, non potessero formare un centro di vita autonoma senza toccare la base fondamentale dell’unità della Patria. Lo stesso deve valere anche per le autonomie, perché questa è la meta che vogliamo raggiungere”.

Sapeva anche, De Gasperi, che “quando si parla di rapporti fra Regione e Stato si nota una strana diffidenza da una parte e dall’altra. Forse ciò sarà dovuto al fatto che innoviamo su un campo un po’ minato, di cui non abbiamo molta esperienza”. Una realtà contraddittoria per la Repubblica italiana, “dove chi governa sono le Camere, sono le deputazioni delle singole Regioni”. Perché dunque rappresentare lo Stato come un possibile nemico, “o un torturatore, o un avversario della libertà regionale?”. E perché essere diffidenti di fronte all’esperimento regionale? “C’è qualche rischio, inevitabilmente, ma dobbiamo affrontarlo, perché nessuna cosa nuova è possibile fare senza un certo rischio”.

De Gasperi invitava al “coraggio di fare questo esperimento”, sottolineando che “dipende, soprattutto, dagli autonomisti se questo esperimento avrà seguito”, oltre che “dalla vigilanza dello Stato” che deve “difendere le proprie finanze, ossia le finanze di tutti”, ma anche far sì che, “nell’evoluzione, tutti gli elementi che sono utili per la cooperazione democratica si risveglino”. Concludendo questo punto affermò: “Io penso (non so se sono il solo a pensare così, spero di no) che una vera democrazia non accentrata, né guidata dalle direzioni dei partiti, una vera democrazia parlamentare non si può formare senza che ci sia un’esperienza nei Comuni, negli Enti locali, nella Regione, senza che si formino uomini capaci di amministrare, così che poi possano venire qui ad amministrare in senso più unitario”.

Ma attenzione, tutte queste parole hanno senso anche oggi se chi le pronuncia ha l’onestà intellettuale di uomini e donne come De Gasperi e sa, come diceva don Ivan Maffeis lo scorso 18 agosto a Pieve Tesino, che “la politica è l’unica dimensione dove la verità e le possibilità umane si confrontano alla pari. Sa che la vera politica è un sistema complesso che non tollera a lungo semplificazioni brutali”.

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