Il Pinocchio dei detenuti

L’arte, l’educazione, la scuola nel carcere vanno nella direzione del dettato costituzionale, che afferma la funzione rieducativa della pena, dice il regista, Amedeo Savoia

C’era una volta… un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nei caminetti per accendere il fuoco”. Inizia così una delle più celebri storie della letteratura italiana, “Le avventure di Pinocchio”. La storia di un burattino che ama la libertà, che non riesce a sottostare alle regole, che ride, si burla degli altri, scappa, dice le bugie, ma poi si pente, piange, paga, e infine ricomincia.

Teatro di questa storia è la casa circondariale di Spini di Gardolo. Protagonisti alcuni detenuti, che hanno vestito i panni di Pinocchio, di Geppetto, di Lucignolo, della Fata per mettere in scena uno spettacolo frutto di un laboratorio di teatro musica e arte, promosso dall’associazione “Il gioco degli specchi” e dall’Iprase del Trentino.

Ad un anno di distanza dalla precedente rappresentazione teatrale “Ulisse e il velo”, siamo tornati in carcere. Poco è cambiato: le stesse procedure di controllo all’entrata, il suono metallico delle pesanti porte che si aprono e si chiudono, i lunghi corridoi, le sbarre, il silenzio. Un silenzio che si rompe soltanto quando entriamo nella sala conferenze del carcere. Sul palco una ventina di ragazzi, impegnati a preparare la scena e a ripetere le battute dello spettacolo. Seduti in platea ci sono gli altri carcerati, amici e compagni di cella (sono 280 i detenuti nella sezione maschile).

Tra gli applausi e gli incitamenti del pubblico, “Pinocchio” va in scena. Dalla creazione del burattino, che nasce dalle mani esperte del babbo Geppetto, alle prime marachelle, all’incontro con Lucignolo, che lo convince a seguirlo nel Paese dei balocchi, dove tutti i ragazzi, compreso Pinocchio diventano asini; per finire in mare, inghiottito dal pescecane, all’interno del cui ventre ritrova il vecchio babbo.

“Ci siamo rifatti al Pinocchio nero realizzato da Marco Baliani con i ragazzi di strada nelle discariche di Nairobi, nel 2004 per l’Associazione Amref – spiega Amedeo Savoia, regista dello spettacolo -. Ci è sembrata una riduzione molto bella e molto efficace, soprattutto quando si lavora con persone che hanno difficoltà a leggere un testo e che quindi devono imparare tutto sulla scena. Abbiamo lavorato 26 ore per una drammaturgia di 21 scene; si è trattato quindi di un impegno notevole, che ha richiesto una certa disciplina nel lavoro”.

Uno spettacolo coinvolgente, che culmina in uno scatenato ballo “Waka Waka” nel Paese dei balocchi, facendo dimenticare per un’ora di essere all’interno di un carcere e di fronte ad attori che, una volta scesi dal palco, saranno ricondotti nelle loro celle. Dove trascorrono la maggior parte della giornata, ad eccezione di due ore la mattina e altrettante il pomeriggio per le attività scolastiche, lavorative o di svago.

“L’esperienza teatrale ha più una valenza educativa, che artistica – spiega Savoia –. Dati statistici a livello nazionale confermano che il tasso di recidiva, cioè di ricaduta nel reato, per i detenuti che hanno partecipato a laboratori artistici scende dal 60% al 5%. L’arte, l’educazione, la scuola nel carcere hanno la funzione di rispettare l’articolo 27 delle Costituzione, che dice che la funzione della pena è la rieducazione delle persone. Il teatro, inoltre, ha un altro aspetto: la partecipazione non è individualizzata, i ragazzi si rendono conto che fanno parte di un gruppo, di un progetto, dove tutti devono essere presenti e sono importanti allo stesso modo. Se consideriamo che in generale le persone detenute sono spesso lasciate a loro stesse, possiamo capire quanto questa condivisione della responsabilità sia molto importante”.

Lo spettacolo finisce.

Di Pinocchio non resta che “un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto”.

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