"Siete mai stati in un carcere? Immaginate di trascorrervi sei mesi: quando entrate vi tolgono tutto, vi perquisiscono accuratamente, poi vi accompagnano in una cella di 12 m², da condividere con altri detenuti: l'articolo 27 della Costituzione recita che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, ma è compatibile con il rispetto dell'umanità vivere in uno spazio così ridotto per 12 ore e il resto del tempo in corridoio? Potersi lavare solo quando è il proprio turno? Avere due ore d'aria al giorno e incontrare i propri famigliari, tutti insieme, 4 ore al mese?"
Gherardo Colombo si è rivolto così, in un coinvolgente botta e risposta, a studenti e studentesse della facoltà di Giurisprudenza e alle oltre 200 persone che hanno gremito la sala degli Arazzi del Museo Diocesano in occasione dell’incontro "A cosa serve il carcere?", che l'ex magistrato, celebre per aver preso parte ad importanti inchieste italiane quali quella sulla loggia P2 e “Mani Pulite”, ha tenuto giovedì 2 marzo a Trento.
"Il carcere è una lavatrice che vorrebbe farci uscire puliti, invece usciamo più sporchi di prima", ha detto nel saluto introduttivo la direttrice Primerano, riportando le voci dei detenuti della Casa circondariale di Spini di Gardolo ascoltate durante la visita avvenuta il giorno prima, sottolineando che la mostra, finora poco visitata, è uno spiraglio su un "mondo altro" per cercare di conoscere ciò che accade al suo interno.
"Terminati i sei mesi – ha proseguito Colombo -, il sentimento prevalente al momento di uscire sarà il risentimento, inoltre il 70% dei condannati a pene carcerarie è recidivo: per un tossicodipendente, la crisi di astinenza è più forte rispetto alla minaccia della pena ed essa non è un deterrente significativo nemmeno per chi ruba perché ha fame o per chi commette un omicidio in uno scatto d'ira".
Il carcere non esercita alcuna forza intimidatoria, la minaccia della pena fallisce la sua funzione di prevenzione e la pena, che dovrebbe tendere alla rieducazione del condannato, non realizza il suo scopo visto che il diritto all'istruzione e al lavoro non sono garantiti e la dimensione affettiva e il diritto all'intimità sono ridotti o negati.
Colombo ha poi evidenziato che la Costituzione non collega la pena al carcere come abitualmente si pensa, ma indica limiti di cui bisogna tener conto: "L'articolo 13 prevede che sia punita ogni forma di violenza fisica o psicologica sulle persone sottoposte a restrizione di libertà e l'articolo 3 stabilisce che tutti i cittadini hanno pari dignità, ma lo dimentichiamo spesso".
Il problema reale riguarda quindi non tanto l'accertamento della responsabilità dell'autore del reato, garantita dal processo, né la condanna alla pena che serve per la soddisfazione della vittima, indicata nella sentenza insieme alla dichiarazione dell'identità del colpevole, ma la possibilità di incidere su una tradizione così radicata nella nostra cultura quale quella di associare immediatamente all'idea di giustizia quella di vendetta.
A proposito della funzione retributiva della pena, Colombo ha sottolineato che il male non si elimina con il male: "Se il processo termina con una condanna, il risultato è solo la soddisfazione del desiderio di vendetta, invece, per poter superare il rancore e il dolore che rimangono in lei, la vittima ha bisogno di quella che viene definita giustizia riparativa”. “Si tratta – ha spiegato – di un percorso attraverso il quale chi ha subito e chi ha commesso il reato vengono accompagnati da persone competenti ad un incontro che serve a condurre il condannato a riconoscere la responsabilità delle proprie azioni, ma senza essere distrutto dal senso di colpa, e a riparare la vittima, anche con un gesto simbolico come una lettera".
Rispetto a quella tradizionale, che non garantisce effettiva riabilitazione, la giustizia riparativa, concetto che sta lentamente emergendo negli ordinamenti internazionali, ha un effetto di ricucitura elevato: "Pensiamo che il carcere sia la risposta naturale al reato e le misure alternative intervengano appunto alternativamente, invece – ha concluso l'ex magistrato – dovremmo considerare il primo solo l'extrema ratio e privilegiare l'attuazione delle seconde, rendendo possibile scontare la pena senza ledere i diritti del detenuto, come accade nelle carceri norvegesi: non può essere utopia ciò che altrove esiste".
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