L’Italia è maglia nera per ritardo nei pagamenti della pubblica amministrazione
«Se qualcuno ha una soluzione migliore, si faccia avanti»: ecco la nuova magia del lessico politico italiano. L’hanno usata personaggi di spicco a proposito dei «minibot». Nobile l’obiettivo: eliminare i ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione (l’Italia è maglia nera al riguardo). Meno nobile l’espediente: si propone una soluzione sciagurata, traslando su altri l’onere di proporne una ragionevole. Perfino il governo greco, ai tempi della crisi finanziaria più acuta, aveva rinunciato a questa «magia». Se lo Stato pagasse i debiti di fornitura emettendo titoli senza scadenza e senza rendimento, i cittadini si troverebbero in mano una sorta di seconda moneta. Buona per pagare le tasse, ma non per gli scambi commerciali, se non con una negoziazione, del tipo: «questo prodotto costa 10 euro, in minibot ne costa 12». Una moneta invisa all’euro e ai nostri risparmi e, in più, inutile nei numerosi casi in cui i ritardi non dipendono dalle risorse, ma dalle procedure o da indolenza. Tuttavia, proviamo a stare al giochino e a suggerire «soluzioni migliori» piuttosto pratiche.
La prima: darsi le mani da torno. Si evince dal sito del MEF che nel 2017 le pubbliche amministrazioni hanno pagato circa 19 milioni di fatture, per 115,9 miliardi di euro (l’83% del totale) in un tempo medio (ponderato) di 55 giorni, con un ritardo medio di 7 giorni, in diminuzione del 50% rispetto al 2016. La situazione sta perciò migliorando sensibilmente senza bisogno di avventure monetarie; per di più la pubblica amministrazione paga sempre e paga molto: vantaggi non trascurabili, come dimostra l’esasperata litigiosità sugli appalti pubblici. Perciò la prima soluzione è pagare con le procedure e le risorse che già ci sono, e con un supplemento di diligenza.
Seconda soluzione: dare al pagamento la giusta priorità politica, che oggi, salvo fiammate, non sembra avere. Spesso a chi lascia le fatture a riposare sulla scrivania è stato chiesto di fare in fretta qualcos’altro. Poi, la politica andrebbe un tantino ri-responsabilizzata, ad esempio consentendo agli amministratori di condividere la liquidazione di spese subordinate a incerte valutazioni discrezionali.
Terza: difendere e premiare la velocità amministrativa. A questo fine sarebbero d’aiuto processi di valutazione dei dipendenti meno burocratizzati (meno schede e più giudizio di merito, con effettività retributiva, in più o in meno) e un temperamento del rischio, talora enorme, che incombe sui funzionari in caso di errore anche per sola colpa, ad esempio legandolo alla retribuzione o prevedendo forme di tutela d’ufficio.
Quarta: qualificare i controlli interni. Dovrebbero essere riservati e confidenziali, non una gogna; orientati ai controlli-impulso (aiutare e consigliare) non ai controlli-freno (reprimere e punire). Impariamo dalla tradizione ecclesiastica la netta distinzione tra confessore e inquisitore, onde evitare che la pubblica amministrazione divenga un grande nascondiglio.
E se il problema è la penuria di risorse? In tal caso si può partire dalla quinta soluzione, che diverrebbe la prima: una vera, profonda spending review (revisione della spesa, ndr). C’è veramente poco grasso che cola, ma nell’economia e nella società c’è ancora molto «pubblico», il quale in certi comparti potrebbe non soltanto ridurre la spesa, ma uscire del tutto di scena. L’argomento è complesso e ci torneremo. Nel frattempo pagare più in fretta si può, anche senza minibot.
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