Si aprono i Giochi olimpici di Parigi e per la Rai rischia di essere l’ultima occasione per confermarsi Servizio pubblico e riferimento televisivo per la maggioranza degli italiani. Una sorta di ultima chiamata, proprio nell’anno in cui festeggia i propri 70 anni. Due settimane nelle quali la suggestione olimpica – attraverso le dirette, le telecronache, le interviste, le storie degli atleti – può cercare di fermare (o rallentare) un declino che in questi ultimi anni, per la Rai, è sembrato inesorabile. Forse inevitabile, quando non si è più da soli, come è successo per decenni, a trasmettere un avvenimento. La concorrenza obbliga a migliorarsi, ad alzare l’asticella della qualità: del resto, il pubblico televisivo è diventato sempre più esigente e competente.
Non basta, come è successo nelle trasmissioni legate ai recenti campionati europei di calcio, limitarsi a fare il tifo per i colori azzurri; non basta mettere in onda dei chiacchiericci da bar sport; non bastano le ore di trasmissione (soprattutto se dirottate, a caso, sui vari canali: da Raisport a RaiPlay) se non c’è un filo conduttore che sappia legare in maniera intelligente e moderna chi è davanti alle telecamere con chi è davanti allo schermo televisivo. Lo spettatore non si accontenta più di “vedere”: vuole capire, vuole conoscere, è alla ricerca di strumenti che gli consentano di farsi una propria idea. Non gli basta più, semplicemente, partecipare ai momenti emotivi delle vittorie, con esaltazioni che stonano non solo per i toni, ma anche perché lasciano un retrogusto nazionalista che poco ha da spartire con lo sport.
La Rai, per i Giochi di Parigi, promette oltre 300 ore di diretta: non sono poche, lo sforzo è davvero grande.
Ma è proprio qui che si gioca il confronto tra la televisione tradizionale e le piattaforme streaming (a pagamento) che garantiscono molto di più: Discovery, ad esempio, trasmetterà sui propri canali tutte le gare di Parigi 2024, complessivamente 3.800 ore di trasmissione. Chi è abbonato alle tv a pagamento, non può certamente guardare tutto ciò che gli viene proposto. Ma può scegliere, nel grande mazzo delle offerte, ciò che più gli interessa.
Proprio questo è il grande appeal dei canali “smart”: possono moltiplicare gli spazi e soddisfare tutti i gusti.
Per la Rai, la sfida è proprio quella che va in senso opposto: scegliere gli avvenimenti olimpici più importanti per il proprio pubblico “generalista” e saper prendere ciascun spettatore per mano, per portarlo in “prima fila” (come diceva la vecchia
pubblicità) e renderlo spettatore consapevole di ciò che sta guardando. Che spesso non è solo una competizione sportiva, ma è anche confronto tra atleti di Paesi diversi, sono storie personali di emancipazione e riscatto, sono vicende esemplari della nostra epoca o di qualche piccola parte del mondo che, ogni quattro anni, grazie alle Olimpiadi, riesce a guadagnarsi la ribalta televisiva, anche solo un’inquadratura che vale quanto una medaglia.
Le Olimpiadi in televisione sono sempre state una raccolta di storie che sanno costruire l’intreccio dei Cinque cerchi. Storie di singoli atleti e storie di squadre che, assieme, fanno anche la Storia. Dal vincitore africano scalzo della maratona di Roma (la prima vera Olimpiade televisiva, in bianco e nero) al pugno alzato con il guanto contro il razzismo alle Olimpiadi del Messico 1968; dall’ostinata resistenza al saluto nazista di Berlino 1934, all’attentato terroristico palestinese contro la squadra israeliana a Monaco 1972.
Alle tante piattaforme a pagamento che offrono – loro sì – “di tutto e di più”, la Rai può rispondere solo se riuscirà a raccontare le storie “vere” e per questo “più belle”: non solo il record e la medaglia, ma anche che la descrizione di un Paese, il nostro, che è molto diverso da quello che raccontano i suoi rappresentanti.
Un Paese maturo, fatto di atleti multietnici e vincenti, capaci di grande determinazione e capaci anche – perché negarlo – di superare sofferenze dovute al colore della pelle.
Dietro ai tricolori sventolati (speriamo tante volte) negli stadi francesi, c’è ormai un’Italia dove i colori assumono toni diversi (e dunque, ancor più belli e più vivi) proprio grazie alle diversità.
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