Volontariato: questi sei mesi in cui molto è cambiato

Mattarella a Trento per l’inaugurazione dell’Anno del volontariato. Foto © Gianni Zotta

Non basta certo proclamare un Anno per rilanciare un valore. Eppure questi primi sei mesi di Trento capitale del volontariato ci hanno cambiato. Ci hanno aperto gli occhi sul “fare volontariato”, come viverlo, come parlarne agli altri. È un bene come l’acqua che scorre dal rubinetto – non te ne accorgi finché non si sporca o non perde potenza – e quindi non ci guardi dentro, lo dai per scontato, inesauribile, sempre pulito.

Fin dal 3 febbraio col presidente Mattarella e tanti efficaci testimoni abbiamo compreso che il volontariato è molto di
più di quello che appare: non solo per quantità e varietà – in questo numero raccontiamo la Pro Loco del Bondone e la “Shemà” dei giovani in Pinè – ma anche per il forte “impatto sociale”, che la ricercatrice Ericka Costa definisce come “la capacità di cambiamento dello status quo delle persone”.

L’aria culturale è più sana laddove “girano” i volontari. La loro passione e la loro costanza hanno la capacità di interrogare: perché lo fai? Perché non molli dopo tanti anni? Ma anche: a quale bisogno rispondi? In cosa vorresti incidere? Potrei darti anch’io una mano?

Con il loro “fare” i volontari seminano un modo di “essere”: generosi e solidali, partecipi e propositivi. Pur con le incoerenze e le incostanze di ogni umana iniziativa, diffondono quella “cultura della cura” che oggi è sempre più complessa – come ha osservato Mattarella a Trento – . Ma è così che si costruiscono i beni comuni, perché cura è attenzione al bene comune”.

E poi, come afferma il volontario Ivo, uno dei volti sorridenti della campagna “Gente felice”: “Fare del bene agli altri fa bene anche a me”, una testimonianza che sintetizza l’effetto positivo della reciprocità: doni ma anche ricevi in dono.

Negli incontri di questi mesi le associazioni di volontariato hanno anche saputo mettersi sotto esame, ridirsi l’essenziale della loro scelta e della loro passione civile: la gratuità assoluta (altrimenti non è, per definizione, volontariato e non nemmeno credibile), la fedeltà nel lungo periodo di tempo e nel quotidiano, l’intenzione di migliorare le condizioni sociali e le situazioni personali. “Oggi, più che mai – aveva detto la presidente del CSVnet Chiara Tommasini all’inaugurazione dell’Anno al PalaTrento – siamo chiamati a promuovere e sostenere il volontariato come catalizzatore di cambiamenti positivi”.

Molti hanno osservato un effetto “Long Covid” pure sul volontariato dopo la pandemia: se molti volontari anziani hanno appeso il grembiule al chiodo – per ragioni anagrafiche o per prudenza sanitaria – si sono attivate più disponibilità giovanili, come ha ben descritto l’ultima indagine Caritas presentata al Vigilianum poche settimane fa. E i ventenni sanno essere contagiosi quando si mobilitano per gli altri: lo vediamo nel volontariato universitario o in quello oratoriano (basta sentire in questo tempo di Grest i responsabili di “Noi Trento”), dove il protagonismo del “fare per” si rivela capace di stimolare nei coetanei disponibilità inespresse (e spesso sottovalutate dagli adulti) in settori impegnativi come il disagio sociale. E anche giovani fragili o in ricerca si fanno “prendere” da queste esperienze.
Negli incontri dell’Anno 2024 anche le associazioni tradizionali – alpini, vigili del fuoco volontari, società sportive – hanno riconosciuto che l’obiettivo non deve essere quello di “arruolare” nuove leve, ma di offrire ai giovani spazi per loro, in cui siano responsabili e protagonisti, senza tutori. Allora i giovani sanno essere generativi, costringono a verifiche, innescano piccole e sane rivoluzioni.

Questi primi sei mesi hanno provocato anche riflessioni autocritiche. Le principali riguardano un’eccessiva autoreferenzialità delle sigle di volontariato mentre il “mettersi in rete” consente di crescere insieme e consolidarsi. E poi l’insufficienza di una formazione qualificata che consente di “fare il bene e farlo bene” e di stabilire relazioni equilibrate con chi professionalmente si trova ad operare nello stesso campo: talvolta infatti nei nostri servizi sociali pubblici o nelle cooperative si registrano “zone grigie” d’incomprensione o di disistima fra operatori e volontari in cui la forza della gratuità non si può esprimere al meglio.

L’autocritica investe anche i modi con cui il volontariato si racconta o viene narrato. L’utilizzo massiccio dei social da parte dei singoli e delle associazioni – diffuso perché evita la mediazione dei giornalisti e favorisce facili appartenenze con alti numeri di “amici” – avviene troppo spesso in modo spontaneistico, non pianificato, controproducente. Può anche indebolire la qualità delle relazioni interne, soprattutto se si desiderano profonde, trasparenti, a tu per tu.

Se c’è da fare attenzione alla “sbornia social”, altrettanta cura va forse ancora riservata ai rapporti con gli operatori della comunicazione per evitare i rischi già noti: la retorica degli “angeli” (che appaiono nelle emergenze, ma per il resto dell’anno risultano invisibili), la rincorsa alle “storie” eccezionali (talvolta “caricate” se non strumentalizzate per motivi non condivisi dagli stessi protagonisti), la scarsa attenzione al contributo “politico” che il volontariato dà non per tappare i buchi, ma per eliminarli o prevenirli. Di questo ragioniamo venerdì 19 luglio a Candriai nella nostra Festa ( vedi pag. 7 ) insieme ai colleghi di Avvenire, di Vita, dell’UCSI e a tanti volontari. E ne riparleremo.

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