Incentivi e sussidiarietà: gli aiuti alle imprese godono di una cattiva reputazione, ma sono oggi più selettivi
Gli aiuti alle imprese hanno oggi una cattiva reputazione. La causa è un orientamento della teoria economica, molto affermato, che li giudica meno efficaci di una riduzione generalizzata del carico fiscale. Il «piano Giavazzi» (il docente bocconiano ingaggiato dal governo Monti) andava proprio in questa direzione. Pur inattuato, è stato seguito da una serie di riforme che hanno effettivamente ridimensionato questi aiuti.
Anche il Trentino è in questa scia. Il tiraggio degli incentivi sugli investimenti aziendali nei cinque settori economici (industria, artigianato, turismo, commercio e cooperazione) è precipitato: dal 2011 al 2014 le aziende agevolate sono passate da 2.375 a 467; gli investimenti da 564 a 117 milioni di euro; l’incentivo da 121 a soli 25 milioni. Cinque volte meno. Non migliore la sorte dei progetti di ricerca, passati dai 57 del 2011 ai 24 del 2014: meno della metà. È stata una piccola, silenziosa rivoluzione, nella quale la riforma attuata dalla Giunta provinciale fra il 2011 e il 2013 ha avuto il suo bel peso. Con una triplice conseguenza: a) gli incentivi sono oggi meglio focalizzati sulle priorità di governo; b) c’è una maggiore sintonia con le politiche europee a favore della concorrenza; c) si sono liberate risorse per la riduzione delle imposte (in particolare l’IRAP): l’insieme delle agevolazioni fiscali per le imprese raggiunge nel 2016 i 180 milioni.
A questi aspetti positivi si associa però qualche preoccupazione. Una è la crisi, che ha certamente frenato gli investimenti. Un’altra è di prospettiva: riguarda il modo con cui l’ente pubblico, nell’intento di ricorrere sempre meno ai propri apparati e al proprio potere di comando, cerca di stimolare l’attività privata; in altre parole, il modo di affermare quel principio di sussidiarietà che, favorendo i comportamenti dei cittadini e delle imprese più opportuni per l’interesse generale, diviene il motore del protagonismo sociale.
Benché vi siano allo scopo vari strumenti disponibili, è evidente quanto robusto sia lo stimolo esercitato dagli incentivi economici. Questi possono puntare a «ridare fiato a consumi, investimenti, occupazione», come scrive il Presidente Rossi nella relazione al bilancio 2016, cioè a dare impulso al sistema economico nel suo complesso, oppure a sostenere i progetti di sviluppo di singole imprese, selezionate secondo determinate priorità, in cambio di obblighi di valenza sociale (come i livelli occupazionali). Il primo è il tipico obiettivo di una riduzione generalizzata delle imposte, il cui beneficio si distribuisce su un’ampia platea di beneficiari, prescindendo, in genere, dal merito di ciascuno; il secondo è invece tipico degli aiuti selettivi, orientati a garantire specifiche ricadute d’interesse collettivo da parte di ciascuna impresa beneficiaria, con un effetto, quindi, più concentrato.
Entrambe le forme di intervento hanno un senso. Tuttavia, mentre la prima è di moda, la seconda rischia di essere sacrificata oltre misura, se non addirittura demonizzata. C’è da sperare che non sia così. Gli aiuti selettivi possono infatti risultare determinanti per seminare sviluppo e lavoro, specie nelle fasi critiche del ciclo. Serve piuttosto grande cura nello stabilire i limiti e i casi in cui essi siano effettivamente necessari, compatibili con le condizioni della finanza pubblica e socialmente produttivi. Cioè i tre requisiti che ne fanno la benzina per il motore della sussidiarietà.
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