A Trieste con gli spunti di Cartabia

La giurista Marta Cartabia con padre Goncalves, direttore di Civiltà Cattolica

Cosa serve al Paese, oggi? si chiede, in fondo, la Settimana Sociale al via a Trieste. “Il punto è imparare di nuovo a stare insieme, anche tra orientamenti che non sono necessariamente vicini”, risponde la giurista Marta Cartabia in una forte intervista della vigilia.

L’ha concessa alla redazione di “Civiltà Cattolica” (il testo integrale sul sito della prestigiosa rivista vaticana) andando “al cuore della democrazia”, come richiede il titolo della Settimana Sociale. Per Cartabia un problema fondamentale è “l’estrema polarizzazione e frammentazione della società, soprattutto tra gli attori politici. La democrazia ha dentro di sé una naturale vocazione alla competizione fra soggetti diversi” – precisa e aggiunge – ma il problema sorge quando la competizione degenera in uno scontro fra tifoserie, in conflitto permanente, in dissidio intenzionalmente coltivato che porta a un’impossibilità di mettersi insieme, di condividere progetti comuni, anche partendo da punti di vista diversi”.

Una “caricatura della democrazia”, secondo la prima donna alla guida della Corte Costituzionale è il populismo, ovvero “la presenza di un leader o di un partito che si considera interprete unico della volontà del popolo. A volte questa forza politica esprime una maggioranza, ma in molti casi, anche per via dell’astensionismo, è espressione di una minoranza più forte delle altre. Il populismo soffoca la pluralità – rileva Cartabia – e, dopo una vittoria elettorale, ha una tendenza a occupare tutti gli spazi di potere: politico, mediatico, amministrativo, culturale”.

La giurista lombarda (nella foto con il direttore di Civiltà Cattolica, padre Goncalves) cita il film di Paola CortellesiC’è ancora domani” per ricordare il clima sociale del 2 giugno 1946 e rilevare come oggi “la disaffezione verso la politica, e quindi anche l’astensionismo, sottintendono una disillusione sulla capacità della rappresentanza politica di intervenire nei problemi concreti della vita delle persone”. Oltre ai giudizi sul premierato (“è una semplificazione molto rischiosa affidare alla capacità del leader la tenuta e la durata nel tempo di un governo) e al fenomeno dei femminicidi (“nel caso di Giulia Cecchettin non vedo un maschio forte che domina la donna, ma al contrario vedo una violenza come espressione di un’incapacità ad accettare che, a volte, la vita non va come tu pensi e ti chiude delle porte. Quando le donne affermano una loro autonomia, non vengono accettate dal partner maschile”), la prof. Cartabia accetta di parlare anche dei giovani che incontra all’università: “cercano stili di vita e percorsi autentici, non si fanno suggestionare dai modelli ereditati” – afferma e aggiunge un invito. “Diamo loro spazio e ascoltiamoli […], perché mi sembra che questi giovani, pur nelle loro difficoltà, abbiano le antenne per capire dove trovare i punti di riferimento”. Non si sottrae nemmeno a due domande strettamente ecclesiali: “Magari le chiese e i seminari sono vuoti – osserva, invitando alla speranza – ma in giro per l’Italia ho visto tante realtà ecclesiali vive. Se avessi una responsabilità ecclesiale, partirei da lì: andrei «a caccia» di segni di vitalità. Ci sono tante esperienze che non fanno clamore, ma che cambiano la storia: nel nostro oggi è meno diffusa la «cristianità», nel senso di una cultura cristiana condivisa, ma focolai di vita nuova ce ne sono eccome, e ripartirei da lì”. Sulle donne nella Chiesa e le recenti nomine vaticane Cartabia conclude: “Credo che papa Francesco abbia fatto molto bene, e mi viene da dire che è un peccato che finora la Chiesa si sia privata o non si sia avvalsa abbastanza dell’apporto di tante donne. Ci sono tante donne dalle doti straordinarie che sarebbe un peccato non impegnarle anche in ruoli di responsabilità”.

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