E’ un viaggio nel tempo e nello spazio, quello compiuto da Karin Bojs, giornalista e divulgatrice scientifica svedese, alla ricerca delle tracce dei suoi antenati. Non si è accontentata però di scartabellare archivi polverosi o di indagare database digitali per capire, attraverso gli atti di nascita e di morte, chi fossero la nonna materna piuttosto che la bisnonna, mai conosciute, ma ha voluto ricostruire la genealogia della sua complicata famiglia partendo dalla conoscenza del suo Dna. E finendo così per spingersi molto più lontano di quanto inizialmente previsto. Da questo viaggio imprevedibile e avventuroso, che l’ha portata in dieci Paesi e a contatto con decine e decine di ricercatori, è nato un libro, “I miei primi 54.000 anni”, pubblicato in Italia da Utet. La stessa Bojs ne ha raccontato la genesi a un pubblico curioso e attento l’altra sera al Muse – Museo delle Scienze di Trento, dove è stata invitata per aprire il primo degli appuntamenti autunnali collaterali alla mostra “Genoma umano. Quello che ci rende unici”. Una serie di incontri con ricercatori, scrittori e scienziati che hanno scavato tra le pieghe del grande libro della vita, analizzando, modificando, studiando e proponendo la loro lettura del nostro codice genetico.
Karin Bojs, affiancata dall’antropologa ed esperta di genetica di popolazione umana Valentina Coia, ricercatrice dell’Istituto per lo Studio delle Mummie dell’Eurac di Bolzano, ha ripercorso la sua paziente e ostinata opera di ricostruzione biologica che l’ha portata a risalire il crinale del tempo fino all’uomo di Neanderthal, per soddisfare una curiosità – ma forse anche qualcosa di più di una semplice curiosità – che la inquietava fin dall’età di dieci anni. L’autrice ricostruisce così un originale album di famiglia allargata, raccontato nelle 438 pagine del libro, frutto di due anni di investigazioni, che ci dice che la famiglia di cui facciamo parte è ben più grande di quel che siamo abituati.
Il racconto prende le mosse dalle sponde del lago di Tiberiade, in Galilea. “E’ stato dimostrato che proprio in Medio Oriente, circa 54 mila anni fa, gruppi di Sapiens e di Neanderthal entrarono in contatto”. Dal lago di Tiberiade alle Alpi, da Cipro alle steppe del Don, passando per il Doggerland, la terra che durante l’ultima era glaciale si estendeva dove oggi c’è il mare del Nord, incontrando uomini preistorici, cavernicoli, artigiani dell’età del bronzo, vichinghi, scienziati, antropologi…
“E’ un bisogno umano profondo quello di conoscere la propria origine – ha esordito Bojs dopo la lettura di alcuni passi del libro da parte di Chiara Turrini -. Anche per me, forse perché cominciavo a invecchiare o perché la mia famiglia era molto frammentata”. Avendo lavorato per due decenni come caporedattrice del “Dagens Nyheter”, il più importante quotidiano svedese, occupandosi di scienza e anche di tecniche di investigazione del Dna, le è venuto naturale affidarsi a queste tecniche per ricostruire le sue origini. Attenzione, però, ha messo in guardia Valentina Coia: i test genetici vanno benissimo se li utilizziamo ai fini della ricerca scientifica, ad esempio cercando di costruire un albero evolutivo di tutte le linee umane. Se invece pensiamo di utilizzarli per determinare l’appartenenza etnica, allora non ci siamo. Coia ha invitato a nutrire una sana diffidenza rispetto a quelle realtà che, nel mare magnum di Internet, propongono test genetici a prezzi accessibili a tutte le tasche, o quasi. “Perfino con sconti autunnali!”, ha osservato, mentre Bojs ha accennato all’interesse crescente per la genetica, che nel suo Paese ha portato anche alla diffusione di “Caffè del Dna”, dove le persone discutono e si confrontano.
“Geneticamente, il gruppo etnico non esiste”, ha chiarito Coia con fermezza, mettendo in guardia dal rischio di possibili strumentalizzazioni dei dati genetici per fini politici. “La differenziazione genetica è all’interno delle stesse popolazioni, non tra gruppi di popolazioni”, ha ricordato, richiamando la lezione del grande genetista Luigi Luca Cavalli Sforza, scomparso recentemente a 96 anni, che con le sue ricerche diede, insieme ad Alberto Piazza, un bel colpo di piccone a tutte le teorie pseudoscientifiche sulle razze. “Non ha senso parlare di razze dal punto di vista genetico. Ciascuno condivide il 99,9 per cento del patrimonio genetico”. La diversità, ha rimarcato, è dentro le popolazioni. “Le razze sono solo artificiali, pensiamo alle razze canine ed equine”. In proposito, Karin Bojs ha accennato alla questione “molto delicata in Svezia” dei Sami, a lungo considerati esponenti di una razza particolare e costretti a subire discriminazioni e abusi, fino a tempi recenti (pieno di pregiudizi, ad esempio, è un libro del 1948, pubblicato quindi quando ormai le conseguenze tragiche del delirio nazista erano ben note). “Il rischio di abusare dei risultati della scienza è sempre presente. Il nazismo ha abusato della genetica. L’importante è attenersi ai fatti. Ed è quello che ho fatto io nel mio libro, il cui messaggio, in sintesi, è che noi siamo il risultato di tantissime migrazioni”, ha concluso Bojs.
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