Non ho voluto essere madre, figlia lo sono stata e lo sono: lo si è sempre, è un destino legato all'essere al mondo e si resta figli anche quando ci si ritrova orfani o figli di qualcuno che può averci abbandonati ancor prima che nasciamo, o subito dopo. Sono nata in una casa senza padre: non è mai veramente tornato dal campo di concentramento, era il fantasma di se stesso. Essere figlia porta con sé una grande fatica: sei chiamata ad essere responsabile di una vita insieme, di cui puoi sentire la gioia e anche il peso. Ho imparato a essere figlia lentamente, quando mia madre è invecchiata. Lì avviene il salto, dall'essere accudito al prenderti cura di un altro che ti è stato genitore.
Essere figli riflette il modo di essere della società nella quale si è inseriti. Un nucleo famigliare non è mai simmetrico, la relazione padre-madre non è mai equilibrata. In famiglia si impara l'esercizio del potere e dell'autorità: essere figlio significa introiettare queste dinamiche senza esserne travolto.
La tradizione biblica ha molto da dire sui figli, in particolare i libri sapienziali: Israele capisce l'importanza di generare per la continuità dei popoli, ma la storia gli impone soprattutto di confrontarsi con il pluralismo di altre culture. Questi libri ci dicono, dunque, che le relazioni famigliari sono quelle in cui si trasmette un sapere: un'esperienza che genera sapienza, ossia la cura nel formare i propri figli e la classe dirigente.
Il Vangelo insegna che anche ciò che è più intimamente proprio, come l'appartenenza al nucleo famigliare, è soggetto a implosione, secondo la logica del regno di Dio. Il rapporto di Gesù con sua madre è duro perché implica separazione, gli impone di dirle che molti altri e altre sono sua madre. Questo è evangelico perché immette nella normalità un elemento di rottura, il superamento di un confine, l'aprirsi all'altro. La figliolanza non può essere confinata: chi fa la volontà di Dio ti è madre, fratello, sorella. I discepoli hanno abbandonato le proprie famiglie per seguire Gesù: riceveranno il centuplo. Essere figli comporta perciò non solo appartenenza biologica e sociale, diventa un ordine simbolico: non sei mai figlio unico, anche se lo sei.
"Figli di Dio" è un'espressione che ci rende bambini bisognosi di affidarsi e di un padre che prenda per mano. Ci insegna invece che Dio non è un'entità statica: la figliolanza è una dimensione permanente, che ti lega al mondo da un rapporto che va di generazione in generazione. Essere figli significa perciò capire di essere inserito in una storia: implica la fine dell'onnipotenza e il riconoscimento della relatività di ciò che si è. Dio rappresenta ciò che è opposto al codice intraumano: è il Padre che ti sopravvive e così ti insegna a vivere l'umano come umano.
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