Beati i miti, recita la beatitudine. Erediteranno la terra. “Il mite lo si nota per come incede, per il tono della voce, per come traversa l’oscuro, forte di una luce che non si sa bene da dove venga. Il mite non è nei cieli ma quaggiù, tra noi: è uno di noi. Ci deve pur essere un motivo per cui riceve in eredità non il cielo ma la terra.”
E’ un libriccino sapiente ed esigente quello di Barbara Spinelli (Il soffio del mite, edizioni Qiqajon, 2012, 128 p.) che non esita ad attardarsi sulle “virtù gentili”. L’umiltà, la benevolenza, la benignità, e fra queste, la mitezza. Può apparire imprudente nominarle in un mondo “virile”, aduso ad esprimere e a vivere ben altre, aspre, taglienti, a volte prepotenti parole.
Sollecitata dagli amici del monastero di Bose – un luogo di dialoghi e di silenzio, da visitare e dove sostare per qualche giorno – la figlia di Altiero Spinelli, che fin dai tempi di Ventotene, lui costretto al confino dal fascismo, sognava un’Europa unita e attenta alle sue genti, in poche pagine sviscera il significato di questa non appariscente virtù. E sono lampanti gli spunti interessanti, le sollecitazioni che propone, le provocazioni che lancia, servendosi di un’ampia conoscenza delle fonti bibliche. Ad esempio, “beare”, non è bearsi, è “fare felice qualcuno”, non essere felici e basta. Così come l’eredità non è un impossessarsi di qualcosa, ma “constatare, esperire, e poi sostare nella fessura apertasi nel mondo”. Una privazione, una separazione, dunque un’eredità prima di tutto spirituale.
Essere mite non è un dato di fatto, uno non si ritrova mite di colpo, per un incantesimo. E’ un’ascesa. Una conquista. Richiede fatica, nelle ore, nei giorni.
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