Lo spunto
«Ha salvato la vita a mio figlio, le sarò sempre grato per questo». C’è ancora molta commozione nelle parole di Mamadou, papà di un bambino di 11 anni, il quale si era recato dalla pediatra per una semplice visita, con la richiesta di ottenere un certificato medico sportivo. Una visita che in realtà ha rivelato ben altro: guardandolo negli occhi la dottoressa ha capito che la situazione per l’undicenne di origine senegalese era gravissima e che era necessario intervenire immediatamente.
Era inizio marzo quando il piccolo, insieme al papà, ha suonato al campanello dell’ambulatorio della dottoressa Maria Rosaria Leveghi, in via Calepina, pediatra di famiglia. «Sono arrivati per avere il certificato di idoneità sportiva per la società – ha raccontato – dopo averlo visitato mi sono resa conto che mancava un elettrocardiogramma da effettuare perché lui potesse giocare a calcio, come è solito fare per praticare un’attività come tesserati. Ma mentre era seduto ho osservato i suoi occhi: erano gialli. La cosa mi ha destato grande preoccupazione e per me è stato un primo campanello d’allarme. Immediatamente ho chiesto al bambino se si sentisse stanco. La risposta è stata un flebile “moltissimo”. Ho subito capito che quello era indice di qualcosa di molto più grave». Subito la pediatra ha prescritto degli approfondimenti. L’11 marzo, papà e figlio sono tornati nello studio nel centro storico con i risultati. «I valori del fegato erano completamente fuori norma, ho capito che si trattava di un’urgenza. Ho subito pensato a un’epatite, per questo ho chiamato il pronto soccorso dell’ospedale, non potevamo più aspettare». La corsa contro il tempo del papà verso il Santa Chiara, poi la notizia del personale medico: il bambino aveva un’epatite autoimmune. Una malattia gravissima e rara per un bambino così piccolo”.
Francesca Cristoforetti (L’Adige, 31 maggio 2024)
La storia raccontata da l’Adige ha avuto un epilogo felice: “Dal capoluogo il piccolo paziente è stato trasferito d’urgenza nella clinica pediatrica dell’Azienda Ospedale Università di Padova. Lì dove, insieme al genitore, è stato accolto per oltre 20 giorni per essere curato, ricevendo la corretta terapia che gli ha permesso di trovare la via verso la guarigione. Poi le dimissioni e il ritorno a casa”
Una vicenda davvero commovente che si presta anche a tre diverse chiavi di lettura. La prima è che la salute, in Trentino, non è ostaggio della “malasanità”, ma sa anche funzionare bene, con personale medico e infermieristico preparato e ben collegato nelle sue relazioni e nei contatti umani e scientifici esterni (Padova in questo caso) e interni (la pediatra e il Pronto Soccorso, snodi decisivi).
Il secondo aspetto riguarda il ruolo fondamentale del medico di base (il mai dimenticato “medico condotto”); il terzo è a questo collegato e si riferisce all’importanza della visita diretta che non può essere sostituita solo dalla medicina on line o dall’autoterapia cui molti ormai ricorrono, seguendo internet invece dei consigli di una figura sanitaria professionale.
Dal racconto dei protagonisti risulta chiaro infatti che se la pediatra non avesse visto e visitato personalmente il bambino non si sarebbe accorta dei suoi occhi e avrebbe magari potuto ipotizzare diagnosi diverse riferite all’affaticamento.
È un tema su cui riflettere a fondo non solo per i pediatri (che scarseggiano), dal momento che i bimbi, specie se piccoli, raramente sanno esprimere i sintomi di cui soffrono, ma anche per tutti i medici di famiglia, per i quali la prima diagnosi avviene proprio esaminando l’aspetto del paziente. E poi la seconda diagnosi che potrebbe avvenire visitandolo a casa, quando possibile, per capire l’ambiente in cui vive, se è salubre o malsano, pulito o trascurato, sereno o ansiogeno, tutti elementi che la comunicazione telefonica o le macchinette informatiche non possono dare.
Telefoni e computer sono strumenti utilissimi per alleggerire e velocizzare la parte burocratica (che pure è necessaria) dei rapporti fra assistenza sanitaria e paziente: con le istituzioni, i tempi di attesa e le prenotazioni, la trasmissione di dati e referti, ma non può sostituire la visita personale, il rapporto diretto medico-paziente che non solo consente diagnosi più accurate, ma crea fiducia.
Storie e cronache come questa non raccontano solo casi particolari, spesso gravissimi e delicati (quasi ogni famiglia può esprimere gratitudine a un pediatra per la salute di un bambino o al suo medico per l’assistenza a un anziano), ma rinsaldano il senso di coesione nella comunità. Non basta però compiacersene. Devono costituire uno stimolo per l’ente pubblico e la politica, perché incentivino la medicina di base e sostengano, motivando non solo economicamente i suoi medici, i medici di famiglia e il loro impegno sul territorio, mettendoli in grado di non essere oppressi dalle carte e dalle mansioni burocratiche, ma di avere a disposizione il tempo per visitare e ascoltare (in ambulatorio e nelle case) chi a loro si rivolge. Avere anche il tempo son solo di affacciarsi alla professione dopo un adeguato tirocinio, ma di coltivare rapporti con i colleghi (le professionalità, lo stile che anima le esperienze si trasmettono spesso da una generazione all’altra), il tempo di aggiornarsi nei rapporti con i centri di ricerca e con il personale ospedaliero e infermieristico, a conoscenza di situazioni che spesso eludono gli stessi “camici bianchi”.
La storia a lieto fine della pediatra e del bambino può diventare insomma una bussola che orienta e incoraggia verso il futuro la sanità trentina.
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