L’arte della terra

Le opere del Gruppo Terrae valorizzano l'estetica della natura con rispetto e umiltà, senza mai smarrirne l’anima

“Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Benedetto De Andrè. Benedetta la poesia sociale che si fa musica universale per insegnarci il miracoloso e salvifico vocabolario della semplicità. Chissà se i quattro artisti “dei calli e delle mani sporche di terra” – Giuseppe Dondi, Alberto Larcher, Fabio Seppi e Roberto Rossi – hanno pensato anche a Faber quando – ormai tre lustri fa – hanno deciso di impastare le loro competenze tecniche, la loro amicizia e la reciproca stima, dando vita all’esperienza – prima umana che artistica – di “Gruppo Terrae” in Alta Valle di Non. Lavorano insieme per dimostrare più che le rispettive abilità, le singole sensibilità, un collettivo sentire: dare forma ad un messaggio, sagomare una speranza. Una speranza che adesso ha preso forma anche all’Ospedale di Bolzano. In un bel giardino pensile – il giardino collegato al reparto di oncologia – i quattro “artigianartisti” di Terrae – aiutati da Annalisa Covi e da Sabine Bortolotti – hanno realizzato quattro opere “in natura” per portare bellezza e serenità in un luogo di preoccupazione e inquietudine. Un luogo – l’oncologico di Bolzano – dove l’arte è anche rodata terapia grazie alla lungimiranza del primario Claudio Graiff. È il fautore dei “Donatori di musica”, vale a dire degli appuntamenti musicali che regolarmente provano ad annullare attraverso le armonie le distanze tra pazienti, famiglie, medici e struttura sanitaria. La musica, così come i libri. Così come il giardino, le piante, il verde. E adesso la “Land art” di “Terrae” che sarà inaugurata il 9 giugno.

“Terrae” è dunque la scelta artistica di un “ritorno alla natura”. È tutto meno che intellettualistica contemplazione. La natura è per il Gruppo Terrae la bottega della materialità. Ma anche quella dell’immaterialità. La terra, l’acqua, i rami, le foglie e tutto quanto rende ogni luogo un unicum di cicli ripetitivi ma mai uguali a se stessi, possono essere anche elementi di un’arte solo apparentemente elementare. La “land art” – il terreno che rende fertili le idee di chi vive la natura con amore e con rispetto – è l’attitudine ad un uso artistico di un ambiente che muta i colori e gli odori, che confonde i suoi elementi con regole millenarie senza mai smarrire l’anima.

Ecco, l’anima. Gli elementi naturali sono soprattutto anima. L’anima di una vita che nonostante ferite sempre più nichilistiche resiste, s’adatta, sopravvive. E continua ad insegnare. Una vita, un’anima – quella della natura – che l’uomo può violentare ma che non può interrompere. E l’arte – la “land art”, l’arte della terra, è un modo per costruire un’estetica, un linguaggio denso di richiami e di suggestioni. Ma in fondo altro non è – appunto – che rispetto. E amore.

Un normalissimo quanto ammirevole atto di onestà manipola quel che la natura regala ai sentimenti dell’artista senza tuttavia porsi nemmeno per un attimo l’obiettivo di trasformare la natura in “altro”. Sudano le installazioni del Gruppo Terrae. Sudano della fatica del taglio e dell’intreccio, del vangare e dell’attorcigliare, delle ginocchia in lotta con l’umido e con il duro dello sconnesso e delle schiene che si piegano al peso dei tronchi. Ma è un sudore allegro. L’allegria della condivisione di un impegno che accomuna quattro personalità artistiche diverse ma all’unisono nell’aspirazione, nello scopo, nel “metodo”.

Giuseppe Dondi, Alberto Larcher, Fabio Seppi e Roberto Rossi: ognuno dei quattro artisti vanta un portfolio rispettabile. Ognuno con il suo mondo creativo che spazia dal mosaico al raku, dal legno al figurativo, eccetera. Ma quando – all’aperto e aperti ad ogni volonterosa collaborazione – i quattro operano assieme scatta inesorabile un che di invidiabile. E non è solo invidia artistica, ammirazione per le realizzazioni, quella di cui viene facile parlare. Al Gruppo Terrae è infatti d’obbligo invidiare uno spirito che si fa metodo. Il loro lavoro è l’antitesi di ogni gelosia d’artista. Progettano i loro interventi “in natura” pensando ad opere capaci di includere i contesti che scelgono di ospitarle. L’arte come lavoro, nell’atelier come nella scuola. Ma è un lavoro che non conosce lo sciopero della convivialità, nel cazzeggio così come nella pignoleria e nella serietà creativa.

Ma l’arte del Gruppo Terrae è anche gioco – un gioco istruttivo certo – quando chiama a far la loro parte, se ne hanno voglia, gli adulti come i bambini, gli indigeni come i “foresti”. E poi considerare l’arte come una chiave per rendere meno ostici i rapporti, significa un imperativo: collaborare. E in questo senso i quattro del Terrae sono sempre pronti a mettersi a disposizione: delle buone cause sociali così come le altrettanto buone cause di giovani artisti disponibili ad uscire dagli studi e dalle accademie per dedicarsi ai rovi. L’arte della natura. L’arte nella natura. L’arte che può cambiare aspetto ad pezzo d’ambiente con l’obiettivo di trasformare l’ambiente stesso nel più eclettico ed imprevedibile artista sulla scena. Se il materiale di un’opera “in natura” è la natura stessa si deve accettare – e nel caso di Terrae si accetta con gioia e convinzione – l’ineluttabilità della deperibilità. Le opere della “Land art” sono e devono essere momenti, non monumenti. Nascono, trasformano e poi si trasformano con l’incedere delle stagioni. È arte? È filosofia? È l’una e l’altra? Ma no, è umiltà.

L’umiltà di chi prova a mettere l’arte al servizio dell’ambiente. E non viceversa. L’umiltà di chi all’arte – e al processo che porta all’arte – affida il compito di svegliare attenzioni sopite, riflessioni e sentimenti prigionieri delle fretta. L’arte – la “land art” di Alberto, Roberto, Giuseppe e Fabio – è infine una coerenza che può apparire paradosso. Trovi, chi ne è capace, altri quattro operai delle forme che godano nel valorizzare più la natura che le custodisce che le opere stesse.

Carmine Ragozzino

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