22 mila “soldati di Dio”

Il ruolo dei cappellani militari nella Grande guerra rivisitato a Trento in un convegno con FBK e Fondazione

Il giorno dopo il convegno su Celestino Endrici, voluto da FBK Isig (con Paolo Pombeni e Marco Bellabarba) per riscoprire questa figura di pastore internato a Vienna, si è tenuta al Vigilianum una due giorni di relazioni e dibattito sulla presenza e l’opera dei cappellani militari nella Grande guerra. Furono circa 22mila i “soldati di Dio”, preti italiani passati “dalla parrocchia alla trincea”.

Anche in questa occasione è stato dato rilievo alla figura del vescovo Endrici (prolusione di Paolo Pombeni; relazione conclusiva di Marco Odorizzi). Non poteva mancare un approfondimento su don Primo Mazzolari (1890-1959), il parroco di Bozzolo (Mantova), una delle più interessanti figure del cattolicesimo italiano della prima metà del XX secolo. Volontario nella prima guerra mondiale, fu cappellano militare. Nel 2015 è stata avviata la causa di  beatificazione.

Non è passata sotto silenzio neppure la figura di un altro cappellano militare, il frate francescano Agostino Gemelli (1878-1959), medico e psicologo, fondatore dell’Università cattolica del Sacro cuore.

Tra i relatori sul tema “Dalla parrocchia alla trincea” da registrare l’intervento del prof. Daniele Menozzi (Università Normale di Pisa). La “sacralizzazione della guerra”, con i caduti sul campo di battaglia indicati come “i nuovi martiri”, aveva individuato in un “castigo divino” l’orribile quanto inutile strage (nel testo originale, in francese, dell’enciclica del papa Benedetto XV “un massacre inutile”). Come la peste e il colera, la guerra fu indicata quale punizione di Dio contro gli uomini che si erano emancipati dalle leggi del Creatore. Si auspicava in quei frangenti l’espiazione del peccato politico della modernità e un ritorno alla Chiesa del Medioevo, allorché il papato avrebbe garantito un ordine pacifico.

Tuttavia, con l’enciclica “Ad beatissimi” (novembre 1914) il Papa aveva preso “nettamente le distanze da ogni forma di sacralizzazione della guerra e di divinizzazione della Nazione”. Il romano pontefice aveva proclamato la propria neutralità di fronte al conflitto che vedeva schierati su fronti opposti popolazioni cattoliche e popoli cristiani. Le Chiese nazionali si appropriarono delle parole di Benedetto XV per rovesciare sui Paesi nemici la responsabilità della guerra. Quanto al soldato devoto il quale “con scrupolo e diligenza obbediva agli ordini superiori, adempiendo pienamente al suo dovere bellico, esercitava la virtù cristiana e quindi si assicurava la vita eterna”. Del resto, se il “potere viene da Dio”, come scriveva S. Paolo, la sottomissione al potere costituito rappresentava una concreta testimonianza cristiana. Notava il prof. Menozzi che “l’esercizio del dovere patriottico costituiva l’occasione per i riscattare i cattolici da quella condizione di esclusione dalla vita pubblica” seguita alle guerre per l’unità nazionale.

L’intreccio tra cattolicesimo e religione di guerra si manifestò in modo marcato nell’intervento di numerosi cappellani militari. Con P. Agostino Gemelli e P. Mazzotti che ottennero dal Papa e da Cadorna il permesso di consacrare i soldati italiani al Sacro Cuore (primo venerdì di gennaio del 1917). Il 15 giugno 1917 analoga consacrazione sarebbe stata estesa “nella quasi totalità delle diocesi in Italia, Francia, Belgio e Inghilterra”. Tale iniziativa non mancò di “presentare in quella devozione il simbolo di una trionfale religione di guerra”.

Contemporaneamente, P. Semeraro assicurava la salvezza eterna per i caduti per la Patria. I santi propositi, benedetti dal “dio degli eserciti”, si sublimavano con il sacrificio salvifico soltanto se il soldato cadeva in grazia di Dio, vale a dire dopo la pratica sacramentale.

Da qui il “buon cristiano e buon soldato”, quindi il garante finale del “trionfo delle ragioni della propria patria”. La santificazione del conflitto ebbe un’impennata dopo Caporetto. E se i caduti cattolici furono indicati come i “nuovi martiri” per l’affermazione nel mondo della civiltà cristiana, pochi anni dopo tutto sarebbe stato sublimato nell’incontro “con la religione della patria del regime fascista”.

Negli anni della Grande guerra, un ruolo di rilievo fu tenuto da papa Benedetto XV (salito al soglio di Pietro dopo la morte, il 20 agosto 1914, di Pio X). A più riprese invocò una “pace giusta” proponendosi quale mediatore fra le Nazioni in guerra. A dire il vero, la nota pontificia dell’agosto 1917 fu interpretata come legittimazione papale dell’obiezione di coscienza. A giudizio del prof. Menozzi, la frase di Benedetto XV (“la guerra ogni giorno più apparisce inutile strage”) andava a toccare “uno dei pilastri portanti la teologia della guerra giusta”. Con quella frase, il pontefice intendeva “assumere l’ufficio di mediatore, facendo il meglio possibile per condurre le nazioni belligeranti a deporre le armi e a riconciliarsi”. Ben prima dei 14 punti del presidente degli Stati Uniti, Wilson, il Papa aveva indicato i medesimi temi per addivenire a una pace giusta.

Alla figura di Benedetto XV (“il più grande Papa del XX secolo”, a suo giudizio) ha dedicato il proprio intervento il prof. don Maurilio Guasco. Fu un Papa che ribadì la condanna contro il modernismo, poi “negli anni modificò il suo concetto”. “Non fu un Papa neutrale ma imparziale”. Benedetto XV favorì una “diplomazia dell’assistenza per arrivare a una pace giusta”. Tra il 1916 e il 1917 “operò per attenuare le sofferenze attivando i vari Nunzi apostolici per lo scambio di prigionieri”.

Tra i “preti di guerra”, un convegno specifico meriterebbero le figure di quei curatori d’anime, più di cento, i quali seguirono le loro comunità nell’esodo nelle “città di legno” dell’Austria e della Boemia, o nella diaspora in 168 comuni del Regno d’Italia.

Alberto Folgheraiter

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