Quando un parroco muore così. Ricordando don Renzo Caserotti

Don Renzo Caserotti a Cavalese nel luglio 1999

Al funerale di don Renzo Caserotti, nel pomeriggio di sabato scorso nella valletta di Peio, abbiamo sentito narrare la sua preparazione alla morte. Era sereno, il sessantanovenne parroco della val di Sole, perché – lo ripeteva convinto – aveva potuto sempre abbeverarsi alla Parola. E all’amico vescovo che lo benediceva con l’olio degli infermi indicava i suoi due brani preferiti: il prologo del Vangelo di Giovanni (“In principio era il Verbo…”) e la lettera ai Filippesi dove Paolo arriva a dire “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno”. Nei due anni di malattia l’ex parroco di Preore, della Bolghera-San Bartolomeo e di Cavalese non ha mai pregato per la sua salute, ma perché non venisse meno il legame con Cristo Risorto – così aveva detto dal pulpito nell’omelia di Pasqua – raffigurato da quella pietra solida che il Caravaggio dipinge come roccia del sepolcro nella sua “Deposizione”, tanto ammirata da Caserotti.

Non aveva mai nascosto il tumore ai suoi parrocchiani: li aveva informati sulla diagnosi e sulle terapie, condividendo con loro la temporanea ripresa dell’attività pastorale. Anche la sua vita quotidiana scorreva nella fiducia e nell’impegno: “Quando ai funerali davi forza ai parenti di una persona che ci aveva lasciato proprio per una malattia incurabile, ci spiazzavi, ma allo stesso tempo davi coraggio anche a noi, permettendoci di guardare alla malattia, anche alla tua malattia come un dono, perché tu stesso ne eri testimone…”.

Si era affidato totalmente al Signore, da vero “figlio della Parola” – come l’ha definito l’Arcivescovo, al quale così aveva espresso il suo stato d’animo nelle ultime settimane, accompagnate dalle cure palliative e dall’affetto dei familiari in quel di Cogolo: “Sono in attesa della venuta del mio Signore. Per quarant’anni l’ho annunciato, ho proclamato quest’attesa. Sarebbe davvero sorprendente se ora me ne sottraessi…”.

Anche per i preti, non solo per i laici, è sempre impegnativo l’appuntamento indefinito con la morte. Sabato tanti confratelli hanno ringraziato il Signore per l’amicizia nella fede di don Renzo, solo apparentemente timido: quel sorriso mite, quelle parole misurate, quella consolante forza spirituale alimentata appunto dalla Parola che aveva meditato a lungo con i suoi parrocchiani nella Lectio Divina.

La testimonianza di don Caserotti – così come quella di altri preti e credenti laici, come Alessandro Fedrizzi o Stefano Bertoldi – arricchiscono davvero ognuno di noi e la nostra Chiesa. Costruiscono un tesoro immateriale, questa modalità diffusa di “morire cristiano” (come dice Luigi Accattoli) che nella cultura del nostro tempo brilla a 24 carati. Da custodire e da annunciare nella semplicità. Scriveva padre David Maria Turoldo in fase terminale: “Non mi scoraggio, cresce la mia tenerezza verso Dio e ogni giorno gli dico: vorrei cantarti come mai ti ho cantato”.

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