Un maestro elementare passato da libraio a giornalista (14 anni anche in Provincia) e recensore di libri. “Cronistorie”, il suo prossimo lavoro. Un invito a tutti? “Un po' di silenzio associato ad una camminata a cellulare spento”
Dottore in niente. Così recita il suo profilo Facebook. Oltre a giornalista, scrittore, devoto alla carta, a L&H (Stan Laurel & Oliver Hardy, Stanlio e Olio) alle “Storie di pallone e di bicicletta”. In pensione da due anni, dopo una carriera a metà tra quotidiani (Alto Adige in particolare) e Ufficio stampa provinciale, ma ancora ampiamente sulla breccia (sue ad esempio le pagine librarie del Trentino).
Contesto subito il “dottore in niente”. Tocco di umiltà?
In realtà è anche la verità che stupisce molti: io non ho mai messo piede in un’università, sono semplicemente un maestro elementare. Mi sono fermato al diploma magistrale e poi ho preso percorsi strani. Sono diventato libraio, commesso di libreria per quattro anni, un ricordo meraviglioso che mi ha segnato anche professionalmente, perché i libri sono diventati il mio pane quotidiano.
Giornalista era la seconda passione, fin da piccolo.
È un ricordo netto, preciso: “Cosa vorresti fare da grande?”, mi chiede la mamma. “Mi piacerebbe fare o il libraio o il giornalista”. Mi è riuscito di fare entrambe le cose, sono assolutamente in debito con il destino.
Il primo pezzo in assoluto?
Del 1978, sulle bande giovanili di Trento. Fu una vicenda curiosa: entrò in libreria, dove lavoravo, l’allora capo redattore dell’Alto Adige, e mentre gli impacchettavo un libro lo apostrofai: “Sul vostro giornale non vedo mai niente che riguardi i giovani, siete un giornale di vecchi”. Lui mi guardò e mi disse: “Scrivi tu, allora, un articolo sulle realtà giovanili!”. Quello fu il mio primo pezzo.
C’è anche una collaborazione, agli esordi, con Vita Trentina…
Mentre collaboravo con l’Alto Adige, successe che ebbi a conoscere, sempre in libreria, il direttore di Vita Trentina, il grande Vittorio Cristelli. E iniziai una breve collaborazione che ebbe a che fare, guarda caso, con i libri locali: curavo una piccola rubrica, “Scaffale trentino”.
Stupì la scelta di abbandonare l'Alto Adige per un lavoro in Provincia. Pentito?
Una scelta che non rimpiango affatto. Di nuovo, penso di essere stato fortunato. Ho lavorato 18 anni in redazione, e poi 14 in un ufficio stampa. Che, nell'immaginario del mondo dell'informazione, è una specie di “contraltare”. Aver fatto le due esperienze mi ha arricchito molto, e mi ha permesso di guardare al giornalismo con un po' di distacco e meno “rigore”. Anche lavorare bene in un ufficio stampa ha la sua dignità giornalistica.
Il giornalismo dopo la rivoluzione digitale. A giudicare dalla sua frequentazione sui social, sembra che si sia adeguato senza grande difficoltà. È così?
In realtà io uso soltanto Facebook, mentre trovo Twitter insopportabile e ingestibile. Su Facebook mi diverto, lo trovo un ottimo strumento per una comunicazione immediata sui miei temi, libri e sport. Lo definisco una specie di bar sport, bar di chiacchiere. Se vissuto così, può avere un connotato positivo. Il problema, reale, è quando diventa, e spesso accade, strumento di rivalsa e di odio, scatenando piogge di commenti che rasentano l'idiozia e l'imbecillità, o diffondendo notizie false…
Cosa le manca maggiormente della vita di redazione?
Non saprei, cerco di non vivere con nostalgia. E poi non è mai venuta meno la molla di questo lavoro la curiosità, talvolta anche eccessiva.
Ha sperimentato anche il valore negativo della curiosità?
No, è che a volte le giornate dovrebbero essere di 56 ore… Se devo avere un rimpianto, temo che riguardi le mie figlie, che quando crescevano hanno visto questo papà forse non quanto avrebbero meritato.
Da giornalista a scrittore, una prova di maturità?
Il passaggio dall'articolo al racconto, che è il tipo di scrittura che prediligo, mi sembra ancora possibile. Ma il romanzo, ad esempio, mi fa ancora paura. Amo molto il racconto breve, che, guarda caso, ha sempre a che fare con la cronaca e la storia.
Dopo “Storie di pallone e di bicicletta”, “Un orso sbrana Baricco”, “Campo per destinazione. 70 storie dell'altro calcio”, un altro titolo in uscita: “Cronistorie”, come la rubrica radiofonica in onda alla Rai di Trento.
Il libro comprenderà sia tutti i racconti già editi, in digitale o su carta, sia alcuni inediti degli ultimi anni.
A 60 anni appena compiuti, qualche “grazie” da dire?
Gli anni '60 li ho vissuti in maniera piuttosto strana. Nel mitico Sessantotto avevo solo nove anni, e subito dopo, ho passato quattro anni in seminario, in un luogo che sembra avere poco a che fare con la contestazione, anche se non è proprio vero. In quell'ambiente ho avuto grandissimi maestri di scrittura… Ricordo cose vissute con molta passione, con l'illusione e la speranza di poter cambiare, quella che oggi si fatica a trovare. In quegli anni c'era meno solitudine.
Tra le sue passioni c'è il viaggio. Meta preferita?
Ho amato molto gli Stati Uniti, non quelli delle metropoli ma quelli dei grandi spazi, Nebraska, Wyoming, in cui capita di viaggiare in macchina per tre ore e non incontrare nessuno. Ma il Paese che mi ha conquistato è il Giappone. Spero, un giorno, di tornarci. Mi piacerebbe che anche Trento sposasse il silenzio, una dimensione da riconquistare.
Nel silenzio c'è spazio anche per qualche altra dimensione, rispetto a quella terrena?
La chiesa è per me il luogo per eccellenza del silenzio. Mi capita, da turista magari, di entrarci per assicurarmi dei momenti di silenzio importanti.
Un invito per tutti, in questa società caotica dove tutto sembra a nostra portata sullo smartphone.
Ne sono convinto. Un po' di silenzio associato ad una camminata a cellulare spento. La battaglia è difficile, ma non si tratta di essere “contro”, di voler scendere dal mezzo del progresso, anche se la tentazione sarebbe quella. Ma non servirebbe a nulla, anche perché tutti gli altri continuerebbero a viaggiare su questo autobus sgangherato dei nostri tempi, in mezzo alla confusione, al rumore ininterrotto di notizie e informazioni contraddittorie. Vorrei semplicemente che imparassimo a viaggia in maniera diversa. Non si tratta di rinunciare al cellulare o a Facebook, ma di saperne fare a meno.
Questo è stato il filo conduttore della carriera giornalistica. Gli esordi all’Alto Adige furono però sulla cronaca?
Come per tutti quelli che, al tempo, mettevano piede nelle redazioni. Cronaca nera, poi qualcosa di cronaca politica, la vita di città. Poi ho lavorato nella redazione di Bolzano, ho contribuito alla nascita del quotidiano di Belluno, il Corriere delle Alpi… E poi sono arrivato a “cultura e spettacoli”, per decenni ne sono stato anche responsabile. Me ne sono andato dal giornale proprio nei mesi in cui stava per cambiare nome, divenendo, nella parte trentina, appunto il Trentino col quale poi ho ripreso a collaborare, sempre sul fronte dei libri e anche dello sport.
Qual è l’elemento di perplessità maggiore sui social?
Il fatto che non basti andare su Facebook e pubblicare una foto e una notizia per essere automaticamente costruttori di notizie e giornalisti tout court. C'è bisogno di filtrare, selezionare, rispetto alla quantità impressionante di notizie che ci piovono addosso tutti i giorni. Questo è il grande problema della nostra società.
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