L'uomo, il frate francescano, lo storico. Le sue accuratissime ricerche negli archivi storici del Trentino, gli studi sulla civiltà ladina
Conobbi padre Frumenzio Ghetta un giorno d’autunno negli anni Sessanta: me ne aveva parlato un mio amico per delle indicazioni in ordine alla tesi di laurea. Lo incrociai in via Grazioli a Trento un po’ prima di mezzogiorno. Veniva veloce, ai piedi nudi dei poveri sandali, il saio francescano, il cingolo bianco ai fianchi con i tre nodi simboleggianti i voti, la vistosa tonsura, sotto il braccio un faldone di documenti trascritti. Mi presentai; mi colpì subito il volto sereno, un sorriso appena accennato, lo sguardo attento e penetrante dei suoi occhi azzurri sotto gli occhiali. Mi invitò a camminare con lui, perché voleva essere puntuale al pranzo nel convento di San Bernardino; situato sul bel colle sovrastante la città di Trento; salimmo la scalinata e mi disse di aspettare: mi portò su un vassoio una porzione del modesto ma buon pasto dei frati. Poi mi accompagnò, passando per gli stretti corridoi, nella sua linda, silenziosa cella. Notai l’austerità del suo letto, l’inginocchiatoio, un leggio, molti libri e trascrizioni di documenti. Qui padre Frumenzio passava parte del suo tempo pregando, contemplando, scrivendo, pensando: voleva conoscere il passato, vivere il presente, sperare nel futuro. Mi disse: “Cella sit tibi quasi coelun quo coelica cernis”: la cella ti sia come un cielo dove vedi le cose celesti. Nacque così una conoscenza ed un’amicizia che sarebbe durata sino alla fine dei suoi giorni.
Padre Frumenzio (Vigo di Fassa 11 febbraio 1920 – Trento 22 aprile 2014) aveva tutte le doti e i valori che si possono desiderare in una persona. Era intelligente, volitivo, con una memoria sorprendente, bramoso di conoscere la vasta realtà del mondo, versatile, autonomo nel modo di pensare, disponibile, coerente, libero e fedele, umile e realistico. Diceva spesso: “Per non sbagliare basta non fare niente”; “So di non sapere nulla”; “Si fa il bene senza dirlo”; “L’uomo è piccolo, ma sa di essere piccolo; la montagna è grande, ma non sa di essere grande” citando Blaise Pascal; “Quando morirò, pregate per me, perché sono un povero peccatore (n pére peciador)”; “Alla fine della vita resta solo quel po’ di bene che abbiamo fatto”.
Era rispettoso di tutto e di tutti: gli stava a cuore la centralità dell’uomo e della sua dignità; credeva nell’uomo. Per lui la verità storica ed umana è progressiva e affascinante: vedo da lontano una figura umana, si avvicina, vedo il suo volto, i suoi occhi e poi la varietà, la ricchezza e anche le sofferenze che stanno dietro gli occhi. Era molto sensibile: con lo sguardo fisso lontano, ricordava con commozione la nonna materna, Marianna Depaul di Tamion, che aveva visto i suoi sette figli andare in guerra; cinque tornarono, due no. Era un poeta umanissimo: basta rileggere le poesie “Le man de mia mare”, “Recordanze de mia mare”.
Era un frate francescano dei Frati Minori convinto e convincente (“vincere insieme”). Era contento della strada che aveva intrapreso, prendeva con fede e fiducia l’obbedienza, anche se talora non era facile. “En ‘n sua volontade è nostra pace” (Dante, Par. c. III. v. 85). La povertà, vissuta senza ostentatezza, era per lui libertà e ricchezza esistenziale e interiore; osservava che vi sono persone e famiglie più povere, con una vita più difficile e stentata, talora senza prospettive e speranza. Lo vidi alcune volte nella casa di riposo di via Borsieri 5 a Trento, vicino a Piazza Fiera: suonava l’armonica a bocca, saltellava e cantava per rallegrare chi era giunto all’autunno della vita. Aveva il dono di predicare in modo semplice riflessioni molto profonde. Sognava una Chiesa meno istituzionale e piramidale, più profetica ed evangelica. Padre Frumenzio passò l’ultimo suo tempo nell’infermeria del convento fraternamente curato; dalle finestre del refettorio osservava attentamente l’ampia Valle dell’Adige; poi si esercitava per delle ore su una cyclette. Nell’ultima mia visita mi fissò con uno sguardo intenso, mi posò la mano sulla testa benedicendomi e mi disse di non perdere tempo per lui, perché era giunto il suo tramonto e aveva voglia solo di Paradiso (“el soreie l fioresc, é voa demò de Paradis”).
Fu un grande storico. “Senza documenti non si fa storia” ripeteva. Fece ricerche accuratissime in moltissimi archivi parrocchiali del Trentino, in tutti gli archivi della Valle di Fassa e di Fiemme, dove molte volte si possono leggere su dei fogli le sue annotazioni; nell’archivio di stato e diocesano di Trento, di Rovereto, di Bolzano, nell’archivio diocesano di Bressanone; nell’archivio Ferdinandeum di Innsbruck. Collaborava volentieri con un suo confratello, padre Remo Stenico. Nella biblioteca del convento vi sono molte decine di faldoni delle sue ricerche, dei suoi manoscritti, della lettura di documenti e di pergamene. Padre Frumenzio profuse a piene mani i risultati dei suoi studi e la bellezza di farci conoscere cose nuove, sconosciute. Molti studenti ebbero il suo aiuto nell’elaborazione della tesi di laurea. Nella primavera del 1971, durante una ricerca riguardante il vescovo di Trento, francescano, Filippo Bonacolsi (1289–1303), trovò, “fortunatamente” diceva, in una busta sbagliata nell’archivio di stato di Trento il diploma originale, che si riteneva fosse andato smarrito, dell’Aquila di San Venceslao donato dal re di Boemia Giovanni il 9 agosto 1339 al principe vescovo di Trento Nicolò da Brno (Moravia, 1338–1347). Collaborò con lo storico Iginio Rogger alla revisione storica di Simonino da Trento, morto nel marzo 1475, ritenuto popolarmente e tradizionalmente ”beato” o “santo”. Confutò con documenti le tesi “false”, condivise sino all’inizio del Duemila anche da studiosi, riguardanti la figura di fra Bernardino da Feltre e ne riabilitò il ruolo di antagonista delle eresie, dell’antisemitismo e di propugnatore dei “Monti di Pietà”, un’istituzione finanziaria senza scopo di lucro per aiutare chi era in difficoltà economiche. Fu determinante per la definizione dei confini della Marmolada, scoppiata improvvisamente dopo la distruzione con mine, da parte del comune di Rocca Pietore, della piccola stazione di arrivo della sciovia della Scuola di Sci di Canazei, situata a monte di un confine tracciato con una linea retta, forse di origine militare, dal laghetto Est di Fedaia e Punta Penia. Lo spartiacque della Marmolada era il confine di stato tra la Repubblica Veneta e l’Impero Austro–Ungarico, poi tra Italia e Austria. Questa confinazione era delineata chiaramente ab immemorabili nel catasto di Cavalese, in tutti gli atti storici e documentali forniti da padre Frumenzio e rielaborati dai due avvocati di Trento per il ricorso al Consiglio di Stato. La contesa si concluse molti anni dopo a favore del Comune di Canazei. Vanno ricordati anche i confronti serrati e le numerose collaborazioni di padre Frumenzio con importanti studiosi per la riscoperta storica e linguistica della civiltà ladina. Le sue opere aprono orizzonti vasti e nuovi sulla valle ladina, documentati con mirabile talento, e costituiscono un assoluto riferimento storico per quanti vogliono approdare a nuove conoscenze.
Le comunità hanno bisogno di persone come padre Frumenzio. Visse come Francesco, cercò come Socrate, credette come Paolo, amò come Giovanni.
Fortunato Bernard
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