“In nome dell’Europa dobbiamo assumerci la fatica del ricordo di quell’evento con un linguaggio nuovo”
Racconta, Paolo Rumiz. Racconta di pattuglie austro-ungariche e russe mandate in avanscoperta che incontrandosi si giocano a carte quale sarà prigioniera degli uni o degli altri. Lo scrittore e giornalista triestino questa volta va in cerca dei concittadini, dei trentini, degli istriani, dei dalmati che combatterono in Galizia, sul fronte orientale, durante la Prima guerra mondiale. Migliaia e migliaia, “italiani con la divisa sbagliata”, sulle tracce di nonno Ferruccio, che allietava la truppa, che tornò ma che non ha conosciuto.
Pubblicato da Feltrinelli, Come cavalli che dormono in piedi, i Caduti seppelliti in centinaia di cimiteri polacchi, è arrivato da pochi giorni in libreria.
Il rigore del giornalista – che per il quotidiano “la Repubblica” già nei mesi scorsi ha proposto lunghi reportage dai vari fronti della Grande Guerra – si accompagna ad uno stile evocativo, alle suggestioni dettate dai luoghi. E’ una penna felice, la sua, un raccontare che non guarda solo al passato, si spinge fino nell’Ucraina in ebollizione, riflette sull’Europa che dopo cento anni da quella mattanza non ha capito nulla non solo del passato, ma neanche del presente.
“Questo è un viaggio nel tempo – scrive – e a me serve tempo per capire”. Un tempo scandito dalle tradotte, da treni che corrono lenti nella pianura. Ma un tempo che ha anche dimenticato i tanti triestini in divisa asburgica, “sotterrato” i morti, e pure i vivi, guardati con sospetto, al ritorno. Anche dalla Storia e dai suoi manuali. Non così i trentini, che ormai da oltre trent’anni hanno trovato albergo e racconto nonostante in tanti continuino a negarlo. E infatti Rumiz ritrova forza e voglia per continuare, dopo che gli hanno rubato tutti gli appunti polacchi, proprio in Trentino, a cena, tra storici e appassionati: Quinto Antonelli, Donato Riccadonna, Luca Girotto, Mauro Zattera. “Quell’incontro con i trentini – annota – la freschezza delle loro testimonianze, quelle letture ad alta voce accanto al fuoco, avevano compiuto il miracolo. Sentivo la guerra bruciare di attualità”.
Sale sul Pasubio – “dove il colpo non faceva ‘pum’ ma ‘ta-pum’. La cannonata non esplodeva una volta sola, ma rintronava cinque, sei, sette volte prima di spegnersi” –, ritorna nei Balcani, dove ha vissuto le guerre fratricide, si ferma a Redipuglia, da dove era partito.
“In nome dell’Europa – conclude – dobbiamo assumerci la fatica del ricordo di quell’evento con un linguaggio nuovo che non sia più quello delle fanfare. Preferisco evocare, riabilitare strumenti antichi come il canto, il verso, il sogno”.
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