Verso le Europee a tutta furia e a passo di carica

La scadenza dell’8-9 giugno si avvicina e le forze politiche marciano verso di essa a tutta furia. Sì, avete letto bene: a tutta furia e non come si suol dire a tutta forza, perché non siamo in presenza di una accelerazione razionale, ma di un caotico alzare i toni per esasperare tutto quel che si può.
La destra in questo è riuscita a battere delle opposizioni che hanno fatto un po’ di demagogia, ma non sono poi riuscite a darsi una strategia. Schlein ha scelto una via confusa come è la candidatura di bandiera in due circoscrizioni (Centro e Isole) e non si capisce a quale scopo. Conte continua nella sua sceneggiata tardo grillina denunciando decadenza e immoralità, ma non sembra suscitare entusiasmi (del resto la sua ambigua posizione sul pasticcio pugliese non contribuisce a dargli credibilità). L’estrema sinistra ripete più o meno i suoi mantra che fidelizzano solo i già fidelizzati.
A destra ci sono invece fenomeni interessanti. Matteo Salvini scommette sulla candidatura in tutte le circoscrizioni del generale Vannacci, chiaramente con l’intenzione di sfruttare quei pregiudizi che una volta si definivano “da osteria”, poi “da Bar Sport”, e che adesso non si sa più come chiamare. È una scelta che ha suscitato molti malumori nella Lega, perché quel partito, si sia o meno d’accordo con la sua impostazione, ha una storia diversa dalle banalità diffuse dal generale (che naturalmente fa il solito giochetto: lancia il sasso e poi dice di essere stato mal interpretato).
Vedremo se i sondaggi colgono abbastanza nel segno, perché allora la Lega uscirebbe dalle elezioni molto ridimensionata, ma non distrutta. Se invece sbagliano, magari perché le ultime uscite suscitano abbandoni o perché nelle contemporanee urne amministrative il partito perde ulteriormente terreno, si assisterà ad una resa dei conti interna i cui esiti possono essere pesanti (difficile che Salvini sia messo ai margini senza pagar il costo di una qualche scissione, il che porrebbe problemi alla maggioranza di governo).
Protagonista assoluta di questa fase è Giorgia Meloni, che ha deciso da tempo di usare le elezioni europee come un plebiscito su se stessa, ma che domenica scorsa lo ha detto con una notevole chiarezza. Non si tratta neppure più di affermare il primato del suo partito, FdI, ma di provare a far certificare che nel paese esisterebbe una larga fiducia proprio nella sua persona. Ciò corrisponde naturalmente al fatto che esiste una quota di elettorato che è poco incline a farsi trascinare nel vecchio revanchismo post missino, mentre ritiene che quel misto di conservatorismo e di populismo piccolo borghese rappresentato dalla “Giorgia” nazionale sia la ricetta giusta per il paese.
Può suscitare qualche perplessità il mix di irruenza comiziante vecchio stile e di sfoggio di virtù da statista in crescita con cui Meloni si presenta. Ovviamente dipende anche dai contesti a cui si rivolge. Parlando alla pancia del Paese esalta il mito della sfortunata che non fa parte delle élite, ma è fiera di essere espressione del “popolo”. Gestendo i consessi internazionali, come la presidenza pro tempore del G7, sottolinea la sua capacità di affrontare i grandi temi e l’accoglienza che riesce ad avere dai vertici del sistema internazionale (vedi la mossa fortunata di avere papa Francesco alla riunione pugliese del G7).
Se possiamo dirlo sottovoce, è un duplice stile che si può ritrovare in molte occasioni nella storia del Mussolini uomo politico: lo diciamo solo per parallelismo storico, avvertendo che ciò non c’entra nulla col definire “fascista” l’attuale premier (che non lo è).
In questa delicata partita, Meloni è consapevole di giocarsi molto del suo futuro. Ha bisogno di un simil-plebiscito sulla sua persona al di là del consenso al suo partito: le serve per stabilizzare la sua leadership in Italia, ma anche per avere una voce di qualche peso nel futuro della UE e più in generale nell’ambito delle relazioni internazionali.
A questo fine punta anche su interventi per distribuire qualche cosa nel campo del lavoro dipendente, soprattutto di quello che si usa chiamare “lavoro povero” che è una delle più pesanti palle al piede del nostro Paese. Qui le risorse disponibili sono poche e il peso del nostro debito pubblico è impressionante, ma come si è sempre fatto si fa finta di poter ancora distribuire qualcosa (non ha mai portato bene nel medio e lungo periodo, ma nell’immediato qualcosa si porta a casa ed è ciò che conta quando ci sono elezioni alle porte).

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