La politica economica va valutata, per rafforzarla

C’è aria di elezioni e molti politici sono tentati dagli indicatori economici, per intestarsi quelli positivi (come lo spread e, per ora, la borsa) e lasciare ad altri i più spinosi (come il carovita e le disuguaglianze). Ma crescita o povertà derivano da un intreccio di cause che è arduo attribuire a qualche governo o forza politica in particolare. In uno studio del Formez (Valutare gli effetti delle politiche pubbliche, «Materiali», 2006) Mario Sisti scrive: «attribuire meriti o demeriti ad una politica pubblica è un’operazione sempre molto complessa… La difficoltà maggiore sta nel fatto che molti altri fenomeni, indipendenti dalle attività messe in atto dalla pubblica amministrazione, influenzano più o meno direttamente i comportamenti e le condizioni che la politica intende modificare. Senza la necessaria accortezza… si rischia di sovrastimare, o viceversa di sottostimare, il contributo dato dalla politica stessa».

Se poi si tratta di valutare le manovre di bilancio, la cosa si complica, perché «una maggiore spesa pubblica può sostenere il livello del reddito nel breve periodo, ma tipicamente non fa nulla per rafforzare il potenziale di crescita dell’economia» come accaduto «in Italia fra gli anni Settanta e Ottanta: la spesa pubblica è aumentata di molti punti di PIL e, malgrado l’aumento… della pressione fiscale, il debito pubblico esplose dal 37% del PIL all’inizio degli anni Settanta a quasi il 95% nel 1990 (Corso di Finanza pubblica, a cura C. Cottarelli – G. Galli, Anima, 2019)».

La valutazione deve districarsi fra molte variabili, le quali richiedono accuratezza e tempi che mal si conciliano con i ritmi del sistema democratico. Tanto più che «non di tutte le politiche è possibile valutare gli effetti – ammette il prof. Sisti – e anche nel caso in cui sia possibile, i risultati ai quali si giunge sono sempre (…) discutibili, parziali e controversi».

Navighiamo dunque alla cieca? Non proprio. Lo studio del Formez consiglia di esigere dai policy maker «obiettivi di cambiamento circoscritti e ben definiti» e non «sfocati o generici», formulati con «verbi “forti” come aumentare, accrescere, diminuire o ridurre» e non «verbi più “deboli” come incoraggiare, aiutare, favorire, promuovere o contrastare, che lasciano qualche margine di vaghezza» (A. Martini, M. Sisti, cit.).

Lessico a parte, un robusto assist alla valutazione proviene dagli obblighi imposti alle imprese in materia di appalti e di aiuti (clausole sociali), obblighi che garantiscono l’effettività delle principali ricadute collettive previste, come l’occupazione, il radicamento e la solidità finanziaria dell’impresa beneficiaria.

S’intende poi che la valutazione dev’essere ragionevole, nel doppio senso di non comportare costi o impatti burocratici sproporzionati e, soprattutto, di non volersi mai sostituire alla decisione politica, frutto di intuito, esperienza e legittimazione popolare che sovrastano i tecnicismi e suppliscono alle loro incertezze. La valutazione supporta e qualifica la volontà politica, non la surroga né la imbriglia.

C’è una storiella emblematica al riguardo. Per vendere all’estero, un fabbricante di scarpe adocchiò la Tribù dei Piedi Scalzi. Inviò allora sul posto due suoi agenti, all’insaputa l’uno dell’altro. Il primo tornò ebbro di entusiasmo: «È una splendida idea, là faremo i milioni, perché nessuno ha le scarpe». Il secondo tornò invece sconsolato: «È una pessima idea, là non si vende nulla, perché nessuno ha le scarpe». Scherzi dei valutatori…

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