La cura dell’Episkopos

Uomo di preghiera, di annuncio, di testimonianza. Ma soprattutto “pastore con l’odore delle pecore”

Tra le parole più belle, più profonde e più toccanti dell'apostolo Paolo possiamo certamente collocare quelle che egli rivolge a Mileto ai responsabili (presbyteroi) delle comunità da lui fondate in Asia Minore, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli (20,17-38). Paolo sa che lo attendono «catene e tribolazioni» (in realtà, verrà arrestato poco dopo a Gerusalemme e condotto prigioniero a Roma) e vuole lasciare in eredità ai suoi più stretti collaboratori non beni materiali mai posseduti, bensì qualcosa di sostanziale riguardo al ministero di annunciatore del Vangelo, da lui esercitato «con tutta umiltà, tra le lacrime e le prove», senza risparmio di energie, notte e giorno, come ben sanno coloro che lo ascoltano. L’apostolo sottolinea, con vigore e commozione, di non aver sottratto nulla di sé al servizio affidatogli dal Signore Gesù e di non aver preteso nulla per sé, coltivando quale unica preoccupazione il «dare testimonianza al Vangelo della grazia di Dio».

L’umiltà non impedisce a Paolo, qui come in altre occasioni, di parlare del proprio ministero con la consapevolezza della sua esemplarità per chiunque sia incaricato dell’annuncio. In questa circostanza vissuta come ultimo incontro, l’apostolo consegna ai suoi collaboratori due raccomandazioni e una promessa. La prima raccomandazione riguarda la vigilanza che ciascuno di loro è chiamato a esercitare in quanto episkopos, cioè custode, di beni che non gli appartengono: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito santo vi ha costituiti come custodi (episkopous) per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio» (At 20,28). La seconda raccomandazione concerne la cura degli asthenountes, cioè dei deboli, e ricorda un detto autentico di Gesù che i Vangeli non riportano: «In tutte le maniere vi ho mostrato che i deboli si devono soccorrere, lavorando così, ricordando le parole del Signore Gesù, che disse: “Si è più beati nel dare che nel ricevere”» (At 20,35). La promessa, infine, lascia trasparire l’affetto di Paolo e insieme la certezza che l’opera è di Dio, non sua: «E ora vi affido a Dio e alla parola della sua grazia, che ha la potenza di edificare» (At 20,82).

La bellezza e la responsabilità del ministero vengono singolarmente illuminate dal discorso di Paolo a Mileto. Non v’è alcun dubbio. Si parlerà in seguito di ’ministero ordinato’, si preciseranno poi ontologia e gradi gerarchici, si discuterà del rapporto tra episcopato e papato, tra Chiesa locale e Chiesa universale. Ma la fisionomia del custode emerge con tutta evidenza già dalle poche e intense parole dell’apostolo. L’essenziale di vite ordinate all’annuncio del Vangelo già mostrato e detto. Richiede però d’esser continuamente meditato e pensato, perché si evitino personalismi, idolatrie di forme storiche particolari d’esercizio del ministero, occultamenti anche involontari del ’mandante’ (Dio) e dei veri destinatari (tutti gli uomini, in particolare i deboli) del ministero.

L’essenziale per l’autenticità del ministro è, in fondo, il gratuito amore. D’altra parte secondo il quarto Vangelo (Gv 21,15-17), esso costituisce l’unico requisito su cui si sofferma Gesù nell’atto di affidare la responsabilità più grande a Simon Pietro, uomo che si potrebbe ritenere poco dotato e persino poco affidabile, visti i precedenti e i tradimenti. Per tre volte il Risorto gli ripete una sola domanda: «mi ami?». Certo. L’apostolo ora ama Gesù. Ha imparato a confidare non in sé, ma in lui e nel suo perdono. La scoperta della propria debolezza lo ha reso capace di affidarsi tanto che ora gli possono essere affidati altri. «Pasci i miei agnelli».

L’essenzialità della domanda di Gesù polverizza, a ben guardare, l’elenco dei ’se’ e dei ’ma’ che siamo soliti comporre quando abbiamo da riconoscere ad altri la capacità d’essere responsabili. Si richiede, anzitutto, la capacità di lasciarsi coinvolgere in relazioni significative e di spendersi per farle crescere. In vista di una responsabilità pastorale e per il suo buon esercizio si può indicare con certezza la relazione da cui tutte le altre dipendono quanto alla possibilità di essere costruite e custodite: è la relazione con il Signore Gesù, vale a dire quella che è in grado di accogliere in sé il massimo del tradimento e il massimo del perdono, come nelle vicende di Simon Pietro e – giova ricordarlo – di Saulo divenuto poi Paolo. Solo se addestrato nella palestra della relazione con Cristo, il ministro del Vangelo impara ad aver cura di ogni debolezza, sperimentando la propria di fronte al volto di Gesù; può compatire ogni situazione di peccato, sapendosi peccatore; può chiamare alla festa del Vangelo, conoscendo la profondità della grazia di Dio.

Non la forza, dunque, né la confidenza nelle proprie capacità contraddistinguono il custode quanto piuttosto l’umile resistenza, la vigilanza su di sé, la cura per tutti coloro che gli sono affidati. Nel linguaggio ecclesiastico si corre talvolta il rischio di enfatizzare il ruolo di presidenza dell’episkopos senza chiarire il carattere di tale prae-esse e senza dire che esso si giustifica unicamente in vista dell’esigente servizio alla debolezza altrui. Eppure non solo il Nuovo Testamento, ma anche una nutrita tradizione teologica cercano di salvaguardare questo tratto imperdibile del ministero. Così Agostino indica nell’attaccamento al prodesse (essere-per, giovare) e non al prae-esse (presiedere) ciò che qualifica il Vescovo (De civitate Dei XIX, 19). Gli fanno eco Gregorio Magno (Regola pastorale II, 6) e Tommaso d’Aquino (Summa theologiae II-II, 185, 1 ad1), quest’ultimo peraltro in un’epoca assai attenta all’ordinamento gerarchico. Per nostra buona sorte, dunque, non si è mai smarrita del tutto la consapevolezza dell’essenziale, nonostante periodi travagliati e smarrimenti storicamente documentabili. A quel tratto essenziale di custodia e di premura per il debole, prima che ad ogni altro carattere o prerogativa, occorre riportarsi sempre di nuovo per pensare l’esercizio del ministero episcopale anche nelle condizioni odierne e per formulare un augurio non solo ’di circostanza’ a chi festeggia l’anniversario di ordinazione.

Milena Mariani

teologa

(tratto da “Vescovo sulle strade del mondo”, Vita Trentina Editrice, 2014)

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