La montagna, maestra di vita

Tamara Lunger, una di quelle donne che valgono da sole un capitolo intero, anzi più d’uno, della storia dell’alpinismo in rosa. La trentunenne altoatesina compagna di cordata di Simone Moro fermatasi ad appena 70 metri dalla cresta del Nanga Parbat nella spedizione invernale del 2016 che le è valso l’Oscar dello sport italiano, ha incontrato il pubblico a Cavedine in occasione della presentazione dall’autobiografia “Io, gli ottomila e la felicità” (Rizzoli) e accompagnandolo sull’onda dell’emozione alla scoperta della “sua” montagna.

Quel modo di intendere le Terre Alte non come conquista, bensì alla stregua di una straordinaria maestra di vita capace di regalare e di togliere al tempo stesso, esaltazione quasi mistica che invita a “misurarsi con i propri limiti” ma rimane pur sempre “la mia grande passione e il vero amore”.

Lo ha ammesso fuori dai denti, la sorridente alpinista, nella serata-evento del 9 marzo, quarto appuntamento della rassegna “Incontri con l’autore” che ha preso piede in autunno nell’ambito della gestione associata della cultura in Valle dei Laghi. “Nessun uomo potrà mai darmi quello che mi dà la montagna, la mia anima è lì sulle cime”, ha osservato quasi beffardamente essendo arrivata con l’imbragatura addosso a un passo, o forse meno, dall’altro mondo.

Non c’è spazio per l’improvvisazione tra i ghiacci e le nevi perenni, in montagna non si vince né si perde, e lo ha imparato a sue spese, Tamara, la più giovane scalatrice italiana a salire un ottomila, gli 8.516 metri del Lhotse, nel 2010. Odissee, sciagure e l’altro lato della medaglia, quel senso di libertà senza eguali le fanno capire che sì, l’alpinismo è esattamente ciò che lei vuole nella vita.

Scalare, per toccare il cielo con un dito. Ma senza ossigeno né sherpa, regola d’oro dalla quale non si discosterà più: “La fatica fa parte dell’avventura, per affrontare con onestà la montagna”. Personalità dirompente, che a fine marzo volerà in Nepal per una nuova spedizione (“Non mi piacciono gli allenamenti rigidi, ho imparato a leggere il mio corpo e so quando fermarmi”, ha confessato), l’autrice ha affidato alla carta i sogni e l’attrazione fatale per l’alpinismo vissuto come sport estremo con quel senso di spiritualità che non le manca affatto.

“Il mio consiglio è di provare a confrontarsi con i propri limiti”, detto tra le righe di questo suo libro la cui stesura è stata “più difficile che scalare il Nanga”. Certo, essere donna in un ambiente quasi monopolizzato dal genere opposto ha un suo prezzo: al campo base bisogna farsi valere, dimostrare di avere una tempra d’acciaio e magari tenere a bada alpinisti “che sembrano marinai appena scesi da una nave”.

Ma Tamara, forse mossa anche da un pizzico di sana follia dinanzi al pericolo sempre dietro l’angolo, vede nell’alpinismo l’opportunità per migliorarsi ed entrare in perfetta armonia con il cosmo. Le imprese ad alta quota, per lei, hanno un che di spirituale, la avvicinano come nient’altro al Creatore. E le donano felicità. Lo si evince in poche battute scorrendo le sue pagine, ora avventurose ora meditative, che infondono vitalità e amplificano anche la più piccola delle emozioni facendo breccia nel cuore del lettore.

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