Nel campo di Tel Abbas dove vivono i siriani in fuga dal loro Paese: portano negli occhi le stragi dei civili, non hanno più lacrime per piangere
dal nostro inviato, Augusto Goio
Tel Abbas, nord del Libano, 27 marzo – “Non mi sono rimaste più lacrime, più nessuna lacrima. Ora non piango più”. La voce non presenta incrinature. Lo sguardo si alza a guardare l’amica che di li a poche ore partirà per l’Italia, sapendo che il cammino sarà senza ritorno. Per un attimo cala il silenzio, nel garage di Tel Abbas, nella regione dell’Akkar nel nord del Libano, che da mesi l’amica ormai in partenza chiama casa. Tutti si tacciono. Anche i bambini, che giocano tranquilli senza disturbare i discorsi dei grandi. Basta quella frase per riportare tutti alla cruda e drammatica realtà di una partenza che per la famiglia Mbarak significa lasciare il Libano, dove vivono da rifugiati ormai dal 2016 dopo essere scappati dalla regione di Homs, distrutta dalla guerra. E cancellare per sempre la speranza di tornare un giorno nella terra che hanno dovuto abbandonare, se volevano salvare la vita.
Come loro, molti altri che avevano resistito in quella martoriata regione, che dista meno di un’ora di macchina da Tel Abbas, nonostante gli attacchi ripetuti e il lungo assedio delle forze fedeli al dittatore Bashar Al Assad, che volevano stanare le milizie ribelli, alla fine non hanno avuto scelta. Hanno pagato i passatori per attraversare le montagne e riparare appena al di la del confine in Libano. A farli decidere, la strage di civili – anche donne e bambini – nel piccolo distretto di Hulla, vicino a Homs, che ha rappresentato una sorta di spartiacque tra un prima e un dopo, tra l’illusione di una fine ormai prossima di una guerra iniziata nel lontano 2011 e la realtà di un conflitto che, nonostante i proclami di vittoria dell’una o dell’altra parte poco importa, è ancora lontana da una soluzione. Cosi è: niente più lacrime, sono state versate tutte.
Un piccolo mondo
“Se il Libano non fosse stato il mio Paese, lo avrei scelto comunque” recita una frase del poeta maronita Khalil Gibran, celebrato autore del novecento. I rifugiati siriani questo Paese non l’hanno scelto. In questo piccolo mondo di confine tra ebrei, cristiani e musulmani, che l’intricato corso degli eventi ha reso un sorprendente e a tratti esplosivo concentrato di tutte le molteplici sfaccettature confessionali che le tre grandi religioni monoteiste hanno saputo esprimere: dalla greco-cattolica alla maronita, dalla sunnita alla sciita, dalla siriaco-ortodossa alla caldea, dalla ismailita alla drusa, dalla protestante alla copta, i rifugiati siriani ci sono arrivati perché schiacciati da eventi troppi più grandi di loro. Quasi pedine di un tragico gioco che vede soccombere non pezzi di legno, plastica o alabastro, ma uomini, donne e bambini, a migliaia. Sono arrivati in un Paese che a stento ne tollera la presenza, che farebbe volentieri a meno di loro, visti come presenza destabilizzante in un contesto già di suo potenzialmente esplosivo. Basti pensare che il nuovo governo si è insediato solo nel febbraio scorso, dopo mesi di trattative estenuanti attente a non compromettere gli equilibri delicatissimi su cui si regge la fragile democrazia libanese, messa alla prova anche dal vicino conflitto siriano. La piccola delegazione arrivata lunedì 25 nel Paese dal Trentino – Mattia Civico referente trentino dei corridoi umanitari, Eleonora Gabrielli del Centro Astalli Trento che si fa carico dell’accoglienza di questa famiglia siriana e il cronista di Vita Trentina – è muta testimone.
Con loro c’è anche una rappresentanza della rete di realtà che a Cuneo e dintorni si prenderanno cura di un’altra famiglia siriana riparata in Libano da anni che come la famiglia Mbarak parte giovedì all’alba dall’aeroporto Rafic Hariri di Beirut per Roma e da li alla volta di Cervasca. Entrambe le famiglie fanno parte di un gruppo ben più numeroso, composto da profughi siriani provenienti da varie parti del Libano, che giunge in Italia grazie all’ultimo corridoio umanitario promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia e dalla Tavola valdese. “Sono circa duemila i rifugiati siriani giunti in Italia a partire dal febbraio 2016. Una goccia, se consideriamo anche solo i siriani riparati in Libano a causa della guerra, un milione e mezzo su una popolazione, quella libanese, di 4 milioni e mezzo. E altri 3 milioni di profughi sono in Turchia e un milione in Giordania”, spiega Alessandro Ciquera di Torino, referente qui in Libano per l’Operazione Colomba, Corpo civile di pace dell’associazione Papa Giovanni XXIII che è accanto ai profughi con il suo stile di presenza rispettoso e non invasivo, ma prezioso. Numeri piccoli, dunque, ma significativi comunque, perché dicono che un’alternativa ai trafficanti di esseri umani è possibile e soprattutto perché, rimarcano i giovanissimi volontari di Operazione Colomba, è un atto di resistenza contro la barbarie che vorrebbe cancellare la nostra umanità.
Il thè dell’accoglienza
La vigilia della partenza è occasione per incontrare le famiglie che partiranno. Arrivano i parenti riparati nei campi informali della zona e arrivano gli amici. Seduti a terra intorno a teli di plastica stesi a mo’ di tovaglia i profughi siriani condividono con chi è venuto da lontano per accompagnarli nel viaggio lungo verso un futuro che si spera migliore, ma comunque denso di incognite, insieme al cibo e alle bevande – l’immancabile the, il caffè lungo e, sorpresa, il mate, la bevanda sudamericana (“Viene dall’Argentina”, mi dice S., ventenne proveniente dalla martoriata Hulla), frammenti di storie che è doloroso ascoltare. Come la vicenda vissuta proprio in quelle ore da uno zio di S. che vive nella zona di Homs: ricercato dalle milizie che sono andate a sparare colpi di mitra contro la sua casa, è stato costretto a fuggire da una finestra e a riparare sulle montagne, lasciando la famiglia sola e i familiari lontani nella preoccupazione per il suo destino. Ciascuno potrebbe soffermarsi a lungo sulle sofferenze patite in Siria, i lutti, gli arresti arbitrari e i lunghi periodi di detenzione, le ferite inferte da aguzzini privi di umanità… ma prevale il più delle volte un dignitoso silenzio. Sono gli operatori dell’Operazione Colomba, con pudore, a sollevare qualche velo. “Ciascuno di loro – ci dice Alessandro – è un testimone prezioso, se un domani, chissà, tra dieci anni magari, dovesse essere istituito un tribunale speciale per i crimini di guerra commessi nel conflitto siriano”. Rispetto a tre anni fa, quando alla fine di febbraio del 2016 il primo gruppo di siriani lasciava il Libano grazie ai corridoi umanitari – tra di loro anche una trentina di uomini, donne, bambini accolti in Trentino – la situazione complessiva dei Siriani riparati nel Paese dei cedri è notevolmente peggiorata. Non riconosciuti come profughi, la maggior parte di loro vive in accampamenti informali, pagando fino a 100 dollari statunitensi per l’affitto del terreno e della tenda, oppure in garage e in appartamenti in casa tirate su in fretta e lasciate al grezzo (ma è un eufemismo) pagando anche in questo caso cifre che basta un qualsiasi contrattempo per non riuscire più a onorare. Basta una malattia, ad esempio, per far precipitare situazioni già più che precarie.
Una morte assurda
“L’altra settimana – ci raccontano i volontari dell’Operazione Colomba – un bambino di pochi mesi ha cominciato a stare male, ma la famiglia non poteva permettersi di portarlo in ospedale. Ci sono andati quando ha cominciato a peggiorare sputando sangue, ma ormai era troppo tardi. E’ morto per una infiammazione curabilissima”. La notte dell’arrivo della delegazione dall’Italia una giovane mamma ha partorito al campo, ma il bambino è nato morto. Per lei solo le parole e la vicinanza delle giovani volontari, preoccupate per la salute della mamma ma anche sconcertate e arrabbiate per una morte cosi assurda che non si è riusciti ad evitare. A peggiorare la situazione e gli umori nel campo profughi informale di Tel Abbas è anche la consapevolezza che quanto sta accadendo in Siria allontana in modo preoccupante e forse definitivo le prospettive di un ritorno. “Chi è scappato dal Paese per salvare la vita sua e dei suoi cari è visto come un disertore, un traditore, quando non apertamente un ribelle o comunque un traditore della Patria”, spiegano i volontari. Chi è rientrato, ci dicono, è finito nelle prigioni del regime e in molti casi poi è sparito, oppure è stato spedito al fronte. Perché al di la dei proclami degli ultimi giorni, con l’annuncio da parte dei combattenti curdo-siriani che dopo Kobane e Raqqa anche la roccaforte di Baghouz, l’ultima area del Paese che era rimasta sotto il controllo dell’Isis, era stata liberata, la guerra è ancora lontana dall’essere conclusa. E anche qualora si dovesse tornare, si troverebbero solo macerie e l’assenza di qualsiasi infrastruttura.
Uno sguardo verso il futuro
Chi parte grazie ai corridoi umanitari lo sa bene ed è comunque combattuto tra la voglia di gettare lo sguardo verso il futuro – più facile per i bambini e i ragazzi, per i quali “siria” è solo un nome: molti sono nati in Libano nei campi profughi – e la tentazione di continuare a guardare indietro, verso una terra e delle radici che pur a pochi chilometri di distanza in linea d’aria rappresentano una meta irraggiungibile. Mentre chi resta cova sotto sotto sentimenti di invidia ne confronti di chi parte e un malcelato rancore verso gli operatori dell’Operazione Colomba, che pure in quella che è una scelta dolorosissima hanno davvero un ruolo marginale, potendo al più segnalare situazioni familiari meritevoli di attenzione. Anche a questo li prepara il periodo di training che ciascuno di loro è chiamato a svolgere prima di partire.
Non si può arrivare a Tel Abbas – piuttosto che in ciascuno delle diverse realtà nelle quali Operazione Colomba opera, dalla Palestina All’Albania, alla Colombia – senza un adeguato addestramento. “Partiamo – ci dicono i volontari – con la consapevolezza che non potremo lasciarci coinvolgere troppo a fondo dalle situazioni che incontreremo, per non venirne travolti, ma anche con la ferma volontà di non rinunciare mai alla nostra umanità”. E’ un equilibrio non facile, e aiuta a tenere la barra dritta la verifica che periodicamente viene fatta tra i volontari per condividere il percorso che si sta facendo. “Sappiamo che quello che facciamo è numericamente poco significativo, ma abbiamo la caparbia ostinazione di insistere perché crediamo che anche la più piccola delle testimonianze abbia valore”.
Basta far un giro per il campo informale di Tel Abbas per rendersi conto di quanto ciò sia vero: qua c’è una piccolo conflitto da mediare, la una lacrima da asciugare, un bambino da rasserenare, una famiglia alla quale far sentire che non è sola.
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