Ventiquattro anni non sono tanti, soprattutto se della guerra ancora si avverte l’eco, in special modo attraverso le notizie che rendono pubblico il lavoro dei tribunali internazionali]
[Da quando, nel 2015, l’Ungheria ha chiuso le frontiere, la Bosnia è diventata un crocevia per la rotta balcanica
Case a perdita d’occhio sulle colline che circondano la città. E poi la Maršala Tita, un’unica, grande via che attraversa e taglia a metà una capitale che si sviluppa soprattutto in lunghezza. È sempre in Maršala Tita che si può prender il tram che in venti minuti ti porta da un capo all’altro dell’abitato, dalla Baščaršija ad Ilidža. Sarajevo è anche questo: i suoi colori, la sua storia ed il canto dei muezzin che richiamano alla preghiera.
Dall’Italia non ci separa molto – solo due Paesi, Slovenia e Croazia – ma, a giudicare dalle scarse notizie che giungono da qui, la lontananza sembrerebbe abissale.
Sono passati 24 anni dalla fine della guerra, alle porte di quell’Europa che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, non aveva conosciuto nessun conflitto; 24 anni non sono tanti, soprattutto se della guerra ancora si avverte l’eco, in special modo attraverso le notizie che rendono pubblico il lavoro dei tribunali internazionali.
L’ultima risale a mercoledì della scorsa settimana, il 20 marzo, quando Radovan Karadžić, ex leader dei serbi di Bosnia, è stato condannato all’ergastolo dal Meccanismo Residuale per i Tribunali Penali Internazionali (MTPI) in sentenza d’appello. Un verdetto che chiude un processo durato più di 10 anni e che amplia la pena riservata a Karadžić, che inizialmente prevedeva 40 anni di reclusione. Crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio: questi i capi d’accusa contro una delle “menti” di Srebrenica dove, nel luglio 1995, morirono più di 8 mila uomini e ragazzi bosgnacchi, sotto gli occhi di una delegazione olandese delle Nazioni Unite.
Conosciamo poco di questa storia, recente e vicina; quello che sappiamo è perlopiù legato al genocidio di Srebrenica. Quel che la storia racconta a chi vuole ascoltarla, però, è che Srebrenica fu solo il culmine di un processo molto più ampio, dove l’intento dei serbi di Bosnia e dei Serbi era quello di “pulire” la Bosnia dalla presenza musulmana e, cioè, dai bosgnacchi, anche attraverso la costruzione di campi di concentramento.
Una storia che merita di essere raccontata prima che la memoria si disperda o venga manipolata. Republika Srpska, una delle due entità in cui la Bosnia Erzegovina è stata divisa dagli accordi di Dayton stipulati nel 1995 sotto l’egida delle Nazioni Unite, ha infatti chiesto la formazione di due commissioni che revisioneranno la storia di Srebrenica e dell’assedio di Sarajevo. Le commissioni hanno iniziato il loro lavoro ad inizio marzo.
Provate ad immaginare un posto che ha vissuto tutto questo così recentemente; camminando per strada ci si chiede spesso quale sia la storia che si cela dietro ogni volto, quali le perdite subite. Immaginate, poi, i luoghi nel mondo dove ora avvengono le stesse, identiche cose.
Da quando l’Ungheria ha chiuso le frontiere nel 2015, la Bosnia è diventata un crocevia per la rotta balcanica. Il Paese dal quale poco più di vent’anni fa le persone fuggivano la guerra – e da dove oggi fuggono, soprattutto verso la Germania, a causa di una disoccupazione spaventosa – accoglie attualmente migranti e rifugiati che vivono la stessa condizione vissuta all’epoca dai bosniaci. Perché, passate Turchia, Grecia, Bulgaria e Serbia, ci si ritrova in Bosnia. E da lì, se si è fortunati, si riesce ad attraversare il confine con la Croazia, arrivando nell’Unione Europea.
Chi lavora o fa volontariato con associazioni che si occupano di fornire sostegno a migranti e rifugiati può però testimoniare che sono rare le vere partenze e che, anzi, spesso capita di salutare qualcuno in cammino per la Croazia e di vederlo tornare qualche giorno dopo, spesso con un occhio nero o una spalla rotta, a causa delle violenze subite al confine.
Sono pakistani, afgani, siriani e nordafricani che, respinti al confine, tornano a Sarajevo, quella città che poco più di vent’anni fa viveva una situazione simile ad Aleppo, dove ancora si distinguono le fessure provocate dalle pallottole sui muri degli edifici. Dove, se alzi gli occhi al cielo, scorgi il bianco delle lapidi sulle colline, e se invece li volgi in basso, camminando lungo la strada, vedi il rosso della delle famigerate “rose di Sarajevo”, della resina che ricopre i buchi lasciati dai mortai, presidi di memoria, in eterno ricordo delle vittime.
*corrispondente di Vita Trentina, frequenta la IUS – International University of Sarajevo, facoltà di Relazioni internazionali
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