Il conflitto è entrato nell’ottavo anno. E il prezzo più alto lo pagano i civili
Tocca tornare sulla Siria. Tocca scriverne, parlarne, perché altrimenti il rischio è l’assuefazione, la più terribile e imperdonabile delle dimenticanze. Stavolta è la zona a sud-ovest della Siria, la città di Daraa, ad essere nel mirino dei bombardamenti da parte dell’esercito regolare di Assad, in un’offensiva dissennata che vede coinvolti direttamente anche i soldati di Russia e dell’Iran (quest’ultima potenza regionale, tramite le truppe di Hezbollah, la milizia sciita libanese sostenuta da Teheran).
A pagare il prezzo più alto – come sempre nelle guerre – è la popolazione civile. Circa 270 mila civili, più di un terzo della popolazione complessiva della zona è in fuga disperata (fate conto: è come se più della metà della gente del Trentino fosse costretta a scappare). Una fuga, oltretutto, senza sbocco perché la Giordania ha fatto sapere che è già fin troppo oberata nel gestire i “suoi” 1 milione e 300 mila profughi siriani.
Verso le alture del Golan la strada è sbarrata poiché Israele teme infiltrazioni di miliziani di Hezbollah. La gente scappa con ogni mezzo: auto, moto, bici, trattori e camion stracarichi di persone.
Sorgono un po’ ovunque accampamenti provvisori, ove ogni tendaggio, ogni telo, ogni coperta o cartone serve per riparare dal caldo opprimente, come testimoniano gli operatori di Human Rights Watch.
In Giordania sorge il campo profughi di Za’atari, a un’ora di macchina da Amman: immenso accampamento dove hanno trovato “rifugio” decine di migliaia di persone – alcune fonti dicono: 80 mila -, tra cui moltissimi bambini. L’Unicef è molto attiva nel cercare di sollevare i tanti disagi delle bambine e dei bambini (dicono ce ne siano almeno 40 mila, la metà). Sono stati messi in attività dei piccoli campi di calcio, laboratori in cui si dà spazio alla infinita creatività dei piccoli profughi. Nei makani (in arabo: “il mio spazio”) trova posto anche qualche postazione dove si dà supporto psicologico ad adulti e giovanissimi perché lo spaesamento (uno straniamento interiore che non trova punti di appoggio affettivo) è l’insidia principale, pari, in certi momenti e in talune circostanze, alla mancanza di cibo fresco, verdura, frutta, che qualche volta scarseggia mentre sono sovrabbondanti scatolette e cibo preconfezionato. Kit igienici per la pulizia personale si cerca non manchino mai anche perché l’acqua corrente va a giorni alterni e quando c’è qualche guasto la può fare sparire da un momento all’altro.
Cose fondamentali sono le matite colorate, indispensabili come il mangiare e il bere. Disegnare significa infatti esternare il proprio disagio, renderlo “reale”, premessa indispensabile per saperlo affrontare. I pennarelli, un pallone e l’infinita pazienza di genitori ed operatori rendono in qualche modo sopportabile “la cattiva polvere gialla che a casa non c’era – come ha scritto Omar, 12 anni -, gli animaletti che pungono quando cammini, le giornate caldissime”. I genitori non possono cercarsi un lavoro perché privi di permesso di soggiorno, i ragazzini non sanno quando potranno tornare a casa.
Per quanto gli aiuti siano tempestivi e anche Israele si sia attivata per non farli mancare, è grande l’incertezza di questa gente, costretta in un limbo dal quale non sa quando potrà uscire. Il gioco alla guerra dei “grandi”, il risiko delle potenze regionali, le contrapposizioni e gli odi hanno effetti devastanti sulla vita quotidiana di moltissima gente, impotente e inane di fronte a qualcosa di irraggiungibile, più grande di loro, qualcosa che li schiaccia e loro non possono fare nulla se non aspettare.
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