Due capisaldi: una politica economica ultraliberista e la militarizzazione del paese che garantisce contro ogni protesta
L’Honduras risulta il caso paradigmatico di come gli Stati Uniti continuano ad esercitare un’influenza fondamentale in tutto il Centroamerica. Dal Guatemala, al Costarica, al Salvador e persino fino al Nicaragua, tornato – nelle scelte di Daniel Ortega – perfettamente succube delle scelte del grande capitale nordamericano. Ma l’Honduras presenta specificità sue proprie in cui sono chiaramente riconoscibili i segnali di un dominio Usa che non usa mezze strategie e va direttamente al cuore di quelle che possono essere o no scelte democratiche o antidemocratiche per assecondare i propri fini.
Già nel 2009 il legittimo presidente Manuel Zelaya venne sequestrato dall’esercito, imbarcato a forza su un aereo militare e portato in “esilio” in Costarica. Ora, le elezioni del novembre scorso, ripetono lo stesso copione in altre forme. E’ stato rieletto il presidente uscente, Juan Orlando Hernandez, con evidenti brogli e manipolazioni elettorali, nonostante le proteste delle organizzazioni internazionali inviate per garantire che tutto filasse nel verso del rispetto della volontà popolare.
Sono due, essenzialmente, i capisaldi che in Honduras devono essere garantiti, costi quel che costi. Una politica economica ultraliberista con il dominio del grande capitale agroalimentare che poggia su bassi salari e limitazioni delle libertà sindacali; e la militarizzazione forzata del paese che garantisce contro ogni protesta e sollevazione popolare. “Orto di casa”, continua ad essere l’Honduras, degli Stati Uniti e se un tempo non lontano l’ambasciatore americano Negroponte veniva addirittura chiamato “proconsole” – ad indicare che le direttive di Washington dovevano trovare efficiente risposta a Tegucigalpa – oggi le modalità non sono affatto mutate.
In realtà, a ben osservare, tutto questo cela, nasconde un conflitto di classe evidentissimo: la militarizzazione della società honduregna significa mantenere e anzi incrementare le diseguaglianze che sono al limite della sopportazione. Con poche famiglie molto benestanti che si spartiscono i 2/3 del reddito nazionale e lasciano praticamente le briciole alla restante maggioranza della popolazione, una buona parte della quale costretta ad una vita che rasenta nemmeno la povertà ma l’indigenza. “Honduras is open for business”, l’Honduras è aperto agli affari, recita lo slogan governativo.
Ma cosa vuol dire se gli investimenti esteri si traducono in un massiccio sfruttamento della forza-lavoro sia nel bracciantato agricolo come pure nei ritmi del ciclo di fabbrica? Se i servizi a favore della gente semplice e più esposta si restringono anziché allargarsi e irrobustirsi con la scusa delle direttive del Fondo monetario internazionale che si fanno sentire, eccome! con la richiesta pressante di un rientro costante dal debito con conseguenti sacrifici? Che poi in fondo vuol dire meno scuole, una sanità più costosa e un ravvedimento del sistema pensionistico già asfittico e con pensioni da fame?
Sono tutti interrogativi che pesano sulle condizioni di vita materiali di tantissime famiglie di campesinos e di braccianti, di operai (esistono anche in Honduras, non sono spariti). Pesano sulle spalle delle donne che portano un peso triplicato e in ogni situazione sostengono le famiglie a fronte di un clima culturale improntato ad un maschilismo esasperato e becero ma introiettato nelle mentalità e che vede come “naturale” la subordinazione delle donne al “potere” maschile (anche in contesti di oppressione, in condizioni di estrema indigenza, le donne portano e sopportano pesi esorbitanti e insopportabili come un portato storico di società squilibrate). L’Honduras è solo un esempio di come in America Latina nuove forme di oppressione si vanno consolidando a danno dei più deboli. Appare lontana una nuova stagione di rivendicazioni e di lotte per la dignità di tutti.
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