Una classe dirigente attenta ai propri personalissimi profitti a danno della gente povera
Que se vayan todos! Che se ne vadano tutti! E’ il grido esasperato e opprimente di una popolazione che non ce la fa più. Non solo a Lima ma un po’ ovunque in Perù. Un territorio letteralmente devastato, espropriato ed appaltato ai potentati economici esteri. Che governano per interposta persona almeno dal 1992 – un’eternità – quando il presidente Alberto Fujimori arrivò a sciogliere il parlamento sospendendo la Costituzione in vigore, sostituendola con una Carta ad hoc, tutta piegata agli interessi del suo clan e delle classi dominanti. E 17 anni dopo la destituzione di Fujimori per corruzione e incapacità manifesta, un altro presidente è riuscito a sfuggire all’impeachment per un soffio. Si tratta di Pedro Pablo Kuczynski accusato – quando era ministro dell’Economia – di aver intascato una mazzetta di 5 milioni di dollari (in un Paese dove la popolazione andina è costretta a vivere di stenti con un dollaro al giorno!).
Non se ne può più! Questo sembra dire – finalmente – il popolo peruviano dopo aver ingoiato rospi di ogni fattura in tutti questi anni. Quello che sorprende è questo intrico di camarille e di pestilenze tutte interne ad una classe dominante incapace di rappresentare un minimo di interessi – ed ancor prima di diritti – propriamente nazionali, cioè a beneficio di tutti, e tutta prona invece ai propri interni e personalissimi profitti a danno della gente povera, impoverita e semplice, disarmata. Sorprende che tantissime persone continuino a votare per questi caudilli, tutti caduti, uno dopo l’altro, come birilli lungo un arco di tempo troppo lungo, dal funambolo presidente Toledo, al pallone gonfiato Alan Garcia fino a Ollanta Hulama che tante speranze aveva suscitato per poi rivelarsi un voltagabbana inverecondo, senza ritegno alcuno.
Torna in mente –a proposito del martoriato Perù – il titolo di un indimenticabile libro di Eduardo Galeano, del 1971, “Le vene aperte dell’America Latina” (Las venas abiertas de América Latina) ad indicare i mineros che nel ventre della terra hanno estratto minerali preziosi rimettendoci in migliaia la vita o una stentata prosecuzione di vita con la silicosi; i campesinos che nelle piantagioni si svenano con paghe miserrime e orari di lavoro interminabili, fino a 12, 14 ore al giorno; le donne peruviane oppresse e sfruttate da una mentalità machista che le vede schiave a tutti gli effetti dentro la famiglia e nella società.
Aveva ragione Gustavo Gutierrez – il fondatore della teologia della liberazione – a dire che l’oppressione viene innanzitutto dal rapporti culturali e personali ed è da lì che bisogna ripartire per possibili nuovi rapporti improntati alla liberazione e alla dignità di ogni persona, oppressi perché schiacciati e condannati a una non vita e oppressori perché usurpatori di diritti inalienabili.
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Impressiona la persistente rete di corruzione che attanaglia da decenni il Perù, un Paese poverissimo dove la gran maggioranza della gente è costretta ad una vita scabra, scarna, ridotta all’essenziale, quando manca il necessario per vivere. Un Paese ricchissimo di storia e di cultura, depredato da una banda di lestofanti e manigoldi. Cuzco, capitale dell’impero inca, con il convento barocco di Santo Domingo costruito sopra il Tempio inca del Sole. Puno. Arequipa. Siti e terre incomparabilmente belle e impoverite. Sacsayhuamàn, che significa “Falco soddisfatto”. Le rovine di Machu Picchu, tra le più visitate, ma non le uniche, da lasciare a mozzafiato. Aguas Calientes. Moray, nei pressi di Maras, nella Valle Sacra degli Incas, con terrazzamenti circolari concentrici che formano un variegato anfiteatro. Cajamarca, Cumbo Mayo con un acquedotto risalente addirittura ad un’epoca pre-inca. Machiguenga. Rio Urubamba e Rio Alto Madre de Diòs. L’opera letteraria di Manuel Scorza (il suo “Rulli di tamburo per Rancas”, tra i capolavori della letteratura latinoamericana) tutta tesa alla difesa degli indigeni e delle comunità campesine peruviane. Ollantaytambo con le enormi pietre angolari che combaciano perfettamente nella perfezione dell’intaglio. E poi i popoli indigeni, i Quechua, gli Aymara, nelle adiacenze del lago Titicaca, gli Achuar, i Bora, e tanti altri, alcuni ridotti ormai a poche centinaia di persone e a rischio estinzione. Gli oppressi e gli oppressori. Gustavo Gutierrez scriveva – ancora nel 1970 – “di due gruppi umani, di due tipi d’uomo”. Una differenziazione reale di tipo antropologico tra chi è abituato a comandare e chi a subire, a soccombere. Viene da chiedersi: quando si spezzeranno queste catene?
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